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sabato 18 luglio 2009

Fate l'amore con il lettore: la poesia come caso particolare di testo; riflessioni su "Il piacere del testo" di Roland Barthes

Sembra molto infantile e semplicistico rapportare tutto al sesso o ai suoi piaceri; io personalmente me ne vergogno tutte le volte che mi capita. Roland Barthes di certo non si è fatto di questi scrupoli, parlando di “piacere del testo”, “godimento del testo” e richiamando spesso la sfera sessuale riferendosi ad un argomento che sembra averci poco a che fare: il già fin troppo citato testo.
Il paragone però possiede un fondamento evidente: leggere un testo può essere un’esperienza molto piacevole o al contrario molto noiosa; alcune letture sono estremamente interessanti indipendentemente dall’argomento che trattano, saggistica o narrativa. In alcuni casi il trasporto con cui esso ci avvince può essere così estremamente forte e vivace da isolarci dal resto e farci provare gradevoli sensazioni.
I giocatori di questa partita sono due, scrittore e lettore. Paradossalmente, hanno entrambi lo stesso scopo: il piacere del lettore. Che questo sia lo scopo di chi legge è evidente, ma è altrettanto evidente, se ci si pensa, che questo sia allo stesso tempo lo scopo di chi scrive: il suo lavoro, la sua opera è diretta al lettore, e di conseguenza essa avrà successo se soddisfa “l’utente”.
Il lettore è, per Barthes, una specie di strano animale, un essere quasi di finzione che se esistesse veramente sarebbe ciò che la società ripudia: nella sua finta esistenza, il lettore abolisce barriere, classi e divisioni; questo è il lettore quando si “prende il suo piacere”.
Dall’altra parte c’è chi scrive, lo scrittore. La vita dello scrittore è molto diversa da quella del lettore. Se quando il lettore legge prendendosi il suo piacere ha raggiunto il suo scopo, questo non vale per lo scrittore: scrivere nel proprio piacere non garantisce a chi scrive di raggiungere lo scopo, cioè il godimento del lettore.
Si potrebbe quasi dire che la ragione di vita dello scrittore è far piacere al lettore; questo da vita al continuo paragone sessuale: il testo dello scrittore deve desiderare il lettore, e la prova di questo desiderio è la stessa scrittura del testo, “è il suo kamasutra”.
Troviamo però una piccola ma significativa differenza che riguarda un caso particolare di testo, la poesia. In questo trattato ci concentreremo soprattutto ad esaminare come i principi che Barthes formula per il caso generale (il testo in genere) si possano applicare in modo specifico al caso particolare (il testo poetico). Se appagare il lettore è l’obiettivo principale di un’opera narrativa o saggistica, il componimento poetico può avere una funzione diversa. La poesia ha la possibilità di essere spiccatamente introspettiva, e di conseguenza può nascere per soddisfare il solo scrittore: la poesia può essere valvola di sfogo, momento di distensione. Questi sentimenti possono trasparire nel componimento ed arrivare così anche al lettore, che può addirittura immedesimarsi in tali sensazioni, ma quest’ultimo non gode; lo scopo di questo tipo di poesia è a tutto vantaggio dello scrittore, che, onestamente, lascia in disparte il lettore. Per dirlo come lo farebbe Barthes, la poesia può diventare “autoerotismo”.
Riprendiamo da Barthes: “Il piacere della lettura deriva evidentemente da certe rotture, codici antipatici che entrano in contatto (per esempio il nobile e il volgare)”. Queste rotture tracciano ovviamente due bordi, uno molto prudente e conforme (potremmo dire canonico e istituzionale) e l’altro che è il suo esatto opposto, mobile, vuoto, quasi trasgressivo e sovversivo, laddove si intravede la morte del linguaggio. Lo stesso Barthes dichiara che quello che attrae di più è il bordo violento, ma che sono entrambi necessari, perché è il compromesso fra i due bordi ad essere necessario. Barthes riprende il suo paragone sessuale facendoci notare che, in effetti, ciò che è maggiormente erotico è l’intermittenza, lì dove gli abiti si dischiudono lasciando intravedere e non vedere: oggi si parlerebbe del “vedo-non vedo”.
La poesia in linea di massima risponde anch’essa a questi parametri: si pensi ad esempio a “Il temporale” di Giovanni Pascoli. Questo componimento rientra, a mio parere, nel pieno della frattura creando il compromesso: la scena è effettivamente descritta (si “sente” il tuono e si “vede” il paesaggio), ma tratteggiata, non perfettamente delineata. Il tuono e il paesaggio potrebbero essere esposti molto più dettagliatamente per quel che riguarda il frastuono del primo o le sensazioni che suscita la visione del secondo, ma vengono accennati, come un pittore che delinea il quadro disegnando sulla tela le linee essenziali:

Un bubbolio lontano...
Rosseggia l'orizzonte,
come affocato, a mare;
nero di pece, a monte,
stracci di nubi chiare,
tra il nero un casolare,
un'ala di gabbiano.


Ma la poesia può spingersi arditamente verso uno dei due bordi, forse in maniera più marcata di altri testi. Alcune poesie premono a descrivere minuziosamente ambienti, circostanze e sensazioni, altre non descrivono niente ma fanno intuire una gran vastità di elementi. Per il primo caso potremmo portare ad esempio “La pioggia nel pineto” di Gabriele D’Annunzio. Per riprendere il nostro paragone pittorico, potremmo dire che questa poesia è come un quadro di Caravaggio, in cui tutti gli elementi sono molto ben delineati ed evidenti. D’Annunzio infatti ci descrive interamente l’ambiente, arrivando a soffermarsi addirittura sul rumore delle gocce di pioggia che cadono sulle foglie:

Odi? La pioggia cade
su la solitaria
verdura
con un crepitio che dura
e varia nell'aria secondo le fronde
più rade, men rade.

E il pino
ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancora, stromenti
diversi
sotto innumerevoli dita.


Del secondo caso, del bordo che ci porta quasi alla morte del linguaggio, si potrebbe parlare della grande maggioranza della produzione ermetica (che per definizione riduce al minimo il linguaggio). Prendiamo “Ed è subito sera” di Salvatore Quasimodo:

Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.

E’ chiaro (potremmo dire persino scontato) che questa poesia presa alla lettera non descrive assolutamente niente: nessuno sta al centro della terra, e i raggi del sole non trafiggono. Idee e sensazioni sono solo intuibili in questo componimento: percepiamo solitudine e scoraggiamento, ma esse non ci vengono riferite. Riportandolo su tela questo esempio, potremmo parlare di astrattismo: a mostrarci “La persistenza della memoria” nell’omonimo quadro di Dalì non c’è niente di direttamente collegabile; l’ambiente non è definito (non c’è ad esempio netta divisione tra mare e cielo all’orizzonte), e questo potere della memoria ci viene mostrato indirettamente, attraverso orologi che disciolgono ad indicare che il tempo si inchina ad essa.
Continuando, Barthes ci mette davanti un errore, una “marachella” che facciamo tutti: saltare parti del testo, quelle che reputiamo meno importanti o più noiose. Nel suo continuo rapportarsi all’erotismo egli lo paragona allo streap-tease, dove lo scopo è vederlo terminato; lo scopo del lettore “medio” è sapere come finisce la storia: saltare parti del testo è come incoraggiare la spogliarellista a velocizzare il suo spettacolo.
Dire che nel leggere una poesia questo non avvenga sarebbe scorretto; quando ci troviamo davanti un componimento epico o una poesia prolissa la tentazione ci viene o addirittura le cediamo: non sorprende ad esempio che dell’Iliade tutti conoscano il prologo o la visita di Priamo ad Achille (momenti chiave della narrazione) ma che altrettanti sorvolino l’episodio in cui Ulisse uccide Reso e gli ruba i cavalli (episodio di contorno). Oppure, quasi tutti quando ci siamo imbattuti per la prima volta in “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” di D’Annunzio avevamo voglia di scorrere velocemente le pagine.
Far questo alla poesia comporta un piccolo rischio in più, soprattutto rispetto alla narrativa. Quando noi velocizziamo la lettura di un romanzo, tendiamo a sorvolare le descrizioni di ambienti o circostanze, che il più delle volte (non sempre) non hanno tanto peso da modificare il corso della narrazione: quando Giovanni Verga ci descrive come Rosso Malpelo si rapporta ai suoi calzoni di fustagno ci fa capire la gravezza della sua povertà, ma sostanzialmente i poveri indumenti del protagonista non ne cambiano il destino. Nella poesia invece (anche qui non sempre) saltando dei versi corriamo il rischio di sorvolare su descrizioni di stati d’animo, di emozioni, che delineano il carattere del soggetto, che nella poesia può essere il fulcro della composizione. Se saltassimo a piè pari una o due strofe del “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”, rischieremmo di perderci stati emozionali del protagonista, che in questo componimento sono l’oggetto centrale.
“Il piacere del testo non è necessariamente di tipo trionfante, eroico, muscoloso. Non occorre incarnarsi” ci dice Barthes. Certo, ha ragione: “Rosso Malpelo” di Verga è scritto in terza persona e la cosa non ci permette di entrare nel protagonista così come se fosse scritto in prima persona, ma rimane il fatto che la vicenda ci prende. E’ vero, non occorre incarnarsi. Ma la poesia è caso particolare del caso generale: la maggior parte delle poesie non descrivono né raccontano, ma trasmettono emozioni; in questo caso incarnarsi non è obbligatorio “ma fortemente consigliato” per arrivare a capire appieno il sentimento trasmesso. Pensiamo a Leopardi e al suo “Infinito”:

Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
de l'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare.


Per capire appieno l’ultimo verso (perché gli è dolce “il naufragar”), dobbiamo “vedere” tutto l’ambiente descritto in precedenza con gli occhi del poeta.
Possiamo da qui arrivare ad un’altra considerazione di Barthes: “Perduto in mezzo al testo c’è sempre l’altro, l’autore. Come istituzione, l’autore è morto”. Non si potrebbe dire meglio quello che rappresenta la poesia! Nel momento stesso in cui il poeta decide di scrivere una poesia, specialmente laddove parla delle sue emotività o delle sue impressioni, perde il suo carattere istituzionale: egli decide di portare al suo stesso piano il lettore, di dividere con lui le sue sensazioni; scrivendo le sue emozioni le rende al lettore, scendendo dal suo piedistallo. Nella figura del saggio che indica la luna egli non è la luna (istituzione), ma il dito (parigrado): a prender la parte dell’astro argenteo sono le sue emozioni, mentre egli è solo colui che lo affianca e gli indica dove guardare.
Guardiamo ad esempio “Il gelsomino notturno” di Pascoli. Scrivendo questa poesia, Pascoli ci porta con sé, e ci fa vedere e sentire quello che vede e sente lui.

Dai calici aperti si esala
l'odore di fragole rosse.
Splende un lume là nella sala.
Nasce l'erba sopra le fosse.

Per tutta la notte s'esala
l'odore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala;
brilla al primo piano: s'è spento . . .


Arriviamo al punto cruciale: testo di piacere e testo di godimento. “Il piacere è dicibile, il godimento no. Il godimento è in-dicibile, inter-detto”. In altre parole, il piacere si può descrivere ed esprimere, il godimento no: un testo può essere di piacere e consegnare al lettore ciò che desidera; ma può essere di godimento, togliendogli e sottraendogli qualcosa, tenendolo avvinto, quasi inglobandolo in sé.
La poesia risponde alla stessa logica. Prendiamo due casi: per mia personale opinione ritengo “Il 5 maggio” di Alessandro Manzoni un testo di piacere, mentre per il testo di godimento propendo per “Mattina” di Giuseppe Ungaretti. Cercherò di spiegare queste scelte nel modo più chiaro possibile.
Manzoni dà al lettore esattamente ciò che ci si aspetta:

Dall'Alpi alle Piramidi,
dal Manzanarre al Reno,
di quel securo il fulmine
tenea dietro al baleno;
scoppiò da Scilla al Tanai,
dall'uno all'altro mar.

tutto ei provò: la gloria
maggior dopo il periglio,
la fuga e la vittoria,
la reggia e il tristo esiglio;
due volte nella polvere,
due volte sull'altar.


Napoleone fece tutto questo, ed in una poesia che racconta la sua storia ci si aspetta che questi avvenimenti siano menzionati o quanto meno parafrasati. Discorso diverso per il testo di Ungaretti:

M’illumino
d’immenso


In questo testo c’è la sottrazione che evidenziava Barthes. Ci rendiamo perfettamente conto che il significato più profondo di questa poesia ci sfugge, e questo ci tiene avvinti e legati fortemente ad essa.
Inoltre, in questi due casi troviamo applicata un’altra idea di Barthes. “Lo scrittore di piacere (e il suo lettore) accetta la lettera; rinunciando al godimento ha il diritto e il potere di dirla … La critica verte sempre su testi di piacere, mai su testi di godimento … Con lo scrittore di godimento (e il suo lettore) comincia il testo insostenibile, il testo impossibile”. In questi due casi vediamo applicata questa differenza: mentre una critica a “Il 5 maggio” è relativamente semplice (perché sappiamo cosa dice e a cosa si riferisce), per “Mattina” il discorso è estremamente diverso; chi può dire cosa significhi veramente questo testo?
Leggere un testo può essere un’esperienza veramente coinvolgente. Tanto più questo può dirsi della poesia, soprattutto di quella “emozionale”, dove questa esperienza può davvero essere vissuta a 360 gradi coinvolgendo il lettore in un rapporto “passionale” (ci ispiriamo a Barthes quest’ultima volta). Del resto, queste potenzialità della poesia sono ben note da tempo, come diceva anche Giovan Battista Marino: “E’ del poeta il fin la meraviglia, … chi non sa far stupir, vada alla striglia!”.

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