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lunedì 21 settembre 2009

L'ORDINE DEL DISCORSO: "I PRINCIPI METODOLOGICI”

L’analisi del discorso intende mostrare l’ordine, mai semplice e univoco ma sempre differenziato e mobile, che presiede alla produzione dei discorsi, degli oggetti che questi suscitano, delle posizioni soggettive che vi si trovano implicate. È rivolta allo studio della funzione del discorso e non alla sua struttura considerata per se stessa e nemmeno all’identificazione del senso che nel discorso sarebbe celato. Ma soprattutto intende liberare la possibilità del discorso da tutte le istanze di controllo che lo orientano e regolano secondo il criterio della volontà di verità, escludendo quei discorsi che in qualche modo possono perturbare l’ordine costituito, destabilizzare le istanze di potere che l’organizzano a distanza. Non si occupa solo dei testi considerati canonici, ma anche di documenti legali, tabelle statistiche, regolamenti istituzionali, ovvero del discorso anonimo ma efficace in cui è possibile riconoscere il fascio di relazioni complesse e differenziate che lega la possibilità dei discorsi alle istanze di potere.Non si può cogliere il senso e l’attualità dell’analisi del discorso proposta da Foucault se la si scioglie dalla sua portata politica, dallo spirito di emancipazione che la inquieta, dal lascito di cui si fa carico. Con L’ordre du discours (1970), Foucault propone una serie di principi ai quali ispirare l’analisi del discorso per una pratica flessibile : il rovesciamento, la discontinuità, la specificità e l’esteriorità.

Rovesciamento: riconoscere nel ruolo positivo tradizionalmente attribuito alle nozioni di autore, opera, disciplina, volontà di verità delle istanze di controllo e rarefazione del discorso; dei dispositivi che regolano il proliferare dei discorsi secondo limiti, ordine e misura riconoscibili.

Discontinuità: riconoscere che al di là delle istanze di controllo non vi è un discorso unico e semplice, da queste represso, ed al quale bisogna restituire la parola, così come non vi è un’unica istanza di potere che esercita il controllo da un’unica posizione e secondo un unico fine (in questo caso il riferimento critico è il marxismo, ed è proprio in quest’orizzonte che dagli anni Ottanta l’analisi del discorso troverà largo impiego negli studi culturali).

Specificità: il discorso non è semplice rispecchiamento della realtà ma la sua elaborazione. Dal tipo di elaborazione dipende l’integrazione del discorso in un certo ordine o la sua esclusione, la regolarità o rarità delle sue apparizioni in ambiti differenti o contigui.

Esteriorità: l’analisi non si rivolge al discorso quale semplice manifestazione di un significato, di un pensiero da interpretare, ma procede “verso le sue condizioni esterne di possibilità”.

La ricerca ispirata a questi quattro principi opera secondo due prospettive diverse ma articolate fra loro: la critica e la genealogia. “Da una parte l’insieme critico che mette in opera il principio del rovesciamento: cercare di individuare le forme dell’esclusione, della limitazione, dell’appropriazione; mostrare come si sono elaborate, in risposta a quali bisogni, come si sono modificate e spostate, quale costrizione hanno esercitato, in che misura sono state aggirate. D’altra parte, l’insieme genealogico che mette in opera gli altri tre principi: come si sono formate, attraverso, a dispetto o con l’appoggio di tali sistemi di costrizione, delle serie di discorsi; qual è stata la norma specifica di ciascuna, e quali sono state le loro condizioni di apparizione, di crescita, di variazione”. L’analisi del discorso sembra offrire strumenti più raffinati per interpretare i fenomeni culturali legati alla contemporaneità: la specializzazione accademica con i suoi effetti di frammentazione e distorsione della diffusione culturale; la televisione quale forma di produzione e istanza di controllo della cultura popolare , e delle identità culturali all’epoca della globalizzazione ; le relazioni di potere che presiedono al discorso scientifico, con particolare attenzione all’affermarsi delle nuove tecnologie; il rinnovarsi delle forme di potere per il controllo dei nuovi media come internet.Non è possibile chiudere la lista degli studi culturali ispirati a Foucault ed all’analisi del discorso. Bisogna però rilevarne l’uso anche in una prospettiva che potremo definire metodologica, o riflessiva, definita Critical Discourse Analysis .

L'ordine del discorso

Foucault nell’Ordine del discorso tratta di tre dei grandi sistemi d’esclusione che riguardano la discorsività e la comunicazione tra individui: la parola interdetta, la partizione della follia e la volontà di verità. Come discorso s’intende il potere di cui le persone cercano di impadronirsi.
Nella nostra società vi sono delle procedure d’esclusione, la più evidente è quella dell’interdizione. È risaputo che non si ha il diritto di parlare di tutto in ogni circostanza o contesto. Foucault, infatti, tende a sottolineare i tabù più frequenti come sessualità e politica. Vi è nella nostra società un altro principio d’esclusione che affonda le proprie radici nel passato (dall’Antica Grecia passando per il Medioevo), relativa all’emarginazione sociale e politica dei folli,quasi una partizione della follia.
Ad esempio fin dal Medioevo il folle veniva visto come il possessore di un sapere oscuro e proibito, capace di vedere realtà superiori che nascondono segreti misteriosi o rivelazioni religiose. Spesso associato alla figura del mago e del sapiente, il folle era colui il quale proferiva un discorso, che però non produceva nessun effetto, sociale o politico che fosse, allo stesso tempo però alle sue parole venivano attribuiti strani poteri, come ad esempio dire una verità nascosta o di annunciare l’avvenire, quasi fosse un inconsapevole oracolo mistico.
Non vi era una via di mezzo, la parola del folle o veniva presa in considerazione come una “ragione più ragionevole di quella della gente ragionevole” oppure cadeva nel nulla senza essere presa in considerazione, rendendo l’individuo oggetto di scherno e derisione da parte degli altri membri della comunità. Proprio nella parola del folle si compiva questa partizione dove si opponevano ragione e follia, antesignano del moderno binomio “Genio e Sregolatezza”. Foucault scandagliò lo sviluppo delle interpretazioni della follia sino alla moderna concezione della malattia mentale, mettendo in luce la forza creativa della follia che le società occidentali hanno tradizionalmente represso. La parola del folle non era presa in considerazione, cadeva nel nulla, rigettata appena proferita, qualunque discorso non era rilevante, tassello portante di un mosaico di pregiudizio ed ipocrisia. Un folle veniva riconosciuto o “etichettato” tale attraverso le sue parole, esse erano il luogo in cui si compiva la partizione, ma come già detto non erano mai accolte né ascoltate. Le parole del folle erano la manifestazione della sua follia, il luogo in cui si compiva la partizione tra la sensatezza e l’insensatezza. Anche oggi, per Foucault, esistono meccanismi di partizione, che però sono azionati in virtù di nuove istituzioni, con nuovi effetti. Il folle lo si ascolta e decifra tramite una rete di psicologi, psicoanalisti, medici ‘armatura del sapere’ fino a poco tempo fa in luoghi sanzionati, quali gli ospedali psichiatrici. Le procedure d’esclusione vi erano già nei poeti greci del VI secolo, veniva messo in rilievo come il discorso vero, quello per cui si aveva rispetto e terrore, quello al quale bisognava sottomettersi, era quel discorso pronunciato da chi poteva farlo.
Nella nostra società ancora oggi vige questa forma di repressione dove non tutti hanno il diritto di parola, dove ancora oggi il discorso deve essere pronunciato da chi di diritto, da chi ha potere, da chi “regna”,anche se si vuol far credere che questo diritto ci sia; a tal proposito Foucault nell’ordine del discorso riprende il vecchio principio greco: l’aritmetica può ben riguardare le città democratiche, poiché insegna i rapporti d’eguaglianza ma solo la geometria deve essere insegnata nelle oligarchie, poiché essa dimostra le proporzioni nell’ineguaglianza. Ciò che conta, dunque, è come la società valorizza, distribuisce e attribuisce il sapere perché la parola è potere.
Oggi possiamo anche aver allargato il numero dei soggetti parlanti, di avere moltiplicato i discorsi, di aver ampliato la libertà, di aver spostato i confini di controllo e dell’esclusione, i folli non vengono più isolati ma la loro follia può “parlare” in prima persona esprimendo la sua verità elementare, ovvero la follia riduce l’uomo ai suoi desideri primitivi e ai suoi meccanismi più semplici, e, allo stesso tempo, una verità terminale dell’uomo, in quanto gli mostra fino a dove possono spingerlo le passioni e la vita di società.

domenica 20 settembre 2009

IL DISCORSO VERO DI FOUCAULT.La verità esiste?

Nel leggere L’ordine del discorso di Michel Foucault (filosofo francese nato nel 1926)mi sono soffermata sul tema degli interdetti,cioè sul fatto che non si può parlare di tutto ciò che si vuole e in qualunque circostanza.
La produzione del discorso infatti è controllata,selezionata,distribuita tramite procedure che hanno la funzione di allontanare i poteri e pericoli e queste procedure sono appunto gli interdetti.
Tra i grandi sistemi d’esclusione che colpiscono il discorso tra cui la parola interdetta,la partizione della follia e la verità contro la falsità(partizione storica che riguarda la nostra volontà di verità e di sapere),è quest’ultima che mi ha colpito maggiormente.
La questione sulla verità è qualcosa di molto difficile da definire,ma una cosa è certa che ancora oggi come in passato essa è quasi sempre una verità velata,di facciata.
Foucault è stato molto influenzato soprattutto dalle opere di Heidegger e Nietzesche,per questo voglio ricordare cosa loro pensassero a tal proposito.
Il problema della verità attraversò tutto il pensiero di Nietzesche nell’ultima fase del suo pensiero trova una risposta particolarmente dura,nichilistica:”la verità potrebbe essere un donchisciottismo, una piccola stravagante bizzarria,ma anche qualcosa di ben più pericoloso, un principio ostile alla vita, un’occulta volontà di morte".”
Anche Heidegger si occupò dell’essenza della verità,”se fossimo dei, forse esisterebbe qualcosa come la verità assoluta e l’essenza assoluta. Ma siamo uomini, ed abbiamo una verità riferita agli uomini. Accessibile agli uomini”.
Foucault parla di volontà di verità,che deve soddisfare i canoni di veridicità,essa pone l’osservatore da una prospettiva che soddisfa alcune parti di verità,” Il discorso vero non puo riconoscere
la volontà di verità che lo attraversa che cerca di mascherare la verità che non vuole”.
Riguardando indietro,nella storia non si può non ricordare di come la verità sia stata manipolata soprattutto durante il nazismo e fascismo,di come i mass-media sono stati monopolizzati,censurati molto spesso con la forza per far si che penetrasse nella testa della popolazione la “loro verità”,cioè la volontà di verità di cui parla Foucaul.
Questo però non vuol dire che oggi non sia lo stesso,infatti ciò che noi sentiamo,sono fiumi di parole ogni volta diverse e molto spesso contraddittorie.
Ripensando a tutti i discorsi che ogni giorno ascoltiamo una minima parte è vera o meglio,verosimile,perché è così,la verità nuda e cruda è rischiosa da dire,bisogna velarla renderla accettabile. Non bisogna illudersi,pensando di vivere nella totale verità,che tutto ciò che vediamo,sentiamo,leggiamo sia pura e semplice verità. Pensiamo ad esempio ai reality,essi sono una sorte di campana di vetro,dove tutti e tutto è spiato,ventiquattr’ore su ventiquattro,ma ciò che vediamo è verità?In realtà bisogna fare attenzione su ciò che traspare,bisogna mantenere il proprio senso critico,perché ciò che sappiamo di certo è che quello che vediamo è realtà,come dice il nome stesso;è realtà perché le persone che ci sono dentro sono reali,vivono là dentro in tempi e spazi reali,ma non siamo sicuri che quel che dicono,pensano o facciano sia vero o se è tutta una montatura.. Se la verità esista dappertutto non si è mai sicuri,ma ciò che l’uomo puo fare è essere sicuro di se stesso e credere in ciò che pensa.

IL GODIMENTO DEL TESTO: IL LINGUAGGIO COME CAMMELLO, LEONE E FANCIULLO

"Il testo deve dare la prova di desiderare il suo lettore. La scrittura è la scienza dei godimenti del linguaggio: il suo kamasutra"
Ad avviso di Roland Barthes l'edonismo del testo deve essere rivendicato contro l'intellettualità: "è il vecchio mito reazionario del cuore contro la testa, della sensazione contro il ragionamento". Il compito dell'artista, afferma Debussy, è quello di cercare umilmente di far piacere, così come Oscar Wilde sostiene "l'artista è colui che crea cose belle".
Il testo deve dunque sedurre il lettore. Si configura qui la predilezione, da parte di Barthes, del dionisiaco nietzscheiano rispetto al raziocinio. Nietzsche attribuiva infatti ad Euripide la colpa di aver eliminato dalla tragedia, e quindi dall'arte, l'elemento dionisiaco in favore di valori morali ed intellettualistici; criticava Socrate e la sua folle presunzione di dominare la vita con la ragione, perchè "la razionalità ad ogni costo è una malattia".
Dioniso era infatti il dio dell'esaltazione dei valori vitali, dell'irrazionalità, della passione e quindi della creatività artistica.
Barthes distingue due tipologie del piacere del testo: il piacere (quello che, venendo dalla cultura, soddisfa e appaga) e il godimento, che potrebbe essere considerato come il piacere a un grado superiore, pathos emozionale portato al suo eccesso. Il godimento implica uno sconvolgimento, un mancamento, uno sconforto, in quanto in esso il soggetto (lettore-scittore) perde la consistenza del suo io: "il brio del testo sarebbe la sua volontà di godimento". In ciò quella del godimento rassomiglia alla concezione del sublime kantiano, catteristico di una bellezza talmente sconvolgente e intensa, da provocare insieme due sensazioni contrastanti, quali repulsione e attrazione.
Il godimento è espressione della propria deriva pulsionale, ed ha una natura asociale.
La critica verte sempre sui testi di piacere e mai su quelli di godimento, poichè il piacere è dicibile, il godimento è indicibile; quest'ultimo non può essere giudicato quale giusto o sbagliato, perchè va al di là del testo stesso. Il testo di godimento è un testo impossibile, intrattabile ed estraneo ad ogni critica, pertanto non si può argomentare su un testo del genere ma soltanto in esso. "Sul piacere del testo non è possibile nessuna tesi. Non potendosi dire, il piacere si metterebbe nell'essere spiegato sulla via generale delle motivazioni, di cui nessuna può essere definitiva". Esso è perciò talmente gratutito e imprevedibile, che sfugge al controllo del suo stesso autore. Donde il fallimento nel fondare una scienza del piacere come principio critico.
Il linguaggio, giacchè parte della doxa, della natura umana, viene inevitabilmete contaminato dalla vita sociale ed è per questo topico.
Diversamente il testo (purchè non sia un metalinguaggio) è atopico, neutro, almeno nella sua produzione; proprio perchè è esente da ogni norma politica o morale e costituisce una sorta di superamento sociolinguistico, Barthes lo definisce perverso: il godimento del testo è necessariamente perverso poichè "nessun godimento si può proporre in una cultura di massa". Il soggetto assiste pertanto all'erotica distruzione della cultura e gode della sua caduta.
Tuttavia viene decretata la preclusione del piacere del testo, a favore del conformismo culturale, razionalista o della critica al significante. Ma il piacere dell'arte, essendo libero da qualsiasi morale culturale, politica o religiosa, non deve giustificarsi dinnanzi ad essa, in quanto è puro, posside l'innocenza del divenire al di là del bene e del male. "Guarda i buoni e i giusti! Chi odiano essi di più? Colui che spezza le loro tavole dei valori, colui che infrange, che delique, ma questi è colui che crea." (Nietzsche).
Proprio in assenza di riferimenti estrinseci il linguaggio di testo trova la propria massima esplosione dionisiaca di godimento.
Ma il nichilismo del linguaggio in Barthes si spinge ben oltre i riferimenti extralinguistici: aspira alla distruzione del linguaggio stesso e al capovolgimento dei suoi canoni sintattici... "Lo scrittore è colui che gioca col corpo della (lingua) madre, per glorificarlo, imbellirlo, o per squartarlo, portarlo al limite di ciò che, del corpo, può essere riconosciuto: arriverà a godere dello sfiguramento della lingua e l'opinione pubblica griderà allo scandalo".
Privo di alcuna causalità o finalità (neppure quella del piacere), che possa costituire un ostacolo all'affermazione di sè, il godimento testuale diviene la testimonianza della crisi e della morte del linguaggio tradizionale.
E' a tal punto che dalle ceneri di quest'ultimo nasce "un nuovo stato filosofale della materia linguistica", che non è più un linguaggio, ma il linguaggio: quello del godimento, che va oltre il linguaggio del testo e il lettore, nel momento in cui ne trae piacere, è paragonabile a un antieroe che crea un nuovo senso della letteratura.
Ad avviso di Saussure, il linguaggio sarebbe un segno composto dalla corrispondenza arbitraria tra significante e significato; ciò può essere vero nel linguaggio quale strumento sociale, ma non in quello di testo, che è atopico e il suo godimento non dipende dal suo significato contenutistico (giacchè esso si è polverizzato con lo sgretolamento delle certezze), ma dalla sensualità della significanza. Da Barthes i due termini vengono presentati come sinonimi: il godimento è significanza e la significanza è godimento, che eccede il valore del significato.
"Il significato è un sasso in bocca al significante" (Jacques Lacan)
Secondo Barthes la più perversa delle letture è quella tragica: "provo piacere a sentir raccontare una storia di cui conosco già la fine", perchè il vero godimento nella tragedia non risiede nell'effimera soddisfazione epistemica, ma nell'emozione di rivivere lo scioglimento della storia.
"Ahimè, verrà il tempo in cui l'uomo non scaglierà più il dardo del suo desiderio al di là dell'uomo,
e la corda del suo arco avrà disimparato a vibrare"
Nietzsche



L'Interdetto nella società familiare

Ne ”L’ordine del discorso”, testo della lezione inaugurale al Collège de France letta il 2 dicembre 1970, Michel Foucault riconosce al discorso una sua realtà materiale considerandolo pervaso da poteri e pericoli che non si possono cogliere istintivamente.
La tesi di Foucault rende espliciti i meccanismi di controllo, selezione, organizzazione e distribuzione della produzione del discorso presenti in ogni società. Questo avviene tramite certe procedure che depotenziano la materialità del discorso e che riguardano il desiderio ed il potere.

Tra le procedure di esclusione la prima è quella dell’interdetto.
Tabù rituali, diritto di parlare o meno di qualcosa, esclusività di esporre un argomento: sono questi i tipi d’interdetto che rendono il discorso non accessibile a chiunque ed ovunque. Questo perché il discorso non è solo manifestazione (o negazione) di un desiderio, ma è elemento di lotta nel gioco di forze contrapposte, ovvero nelle dinamiche del potere. Esso stesso è un potere (esempi posti da Foucault: regioni della sessualità e della politica).


Altra procedura d’esclusione è la partizione e/o rigetto della follia.
“E’ curioso constatare come per secoli in Europa la parola del folle o non era intesa, oppure, se lo era, veniva ascoltata come una parola di verità” (pag. 11). Anche oggi, per Foucault, esistono meccanismi di partizione, che però sono azionati in virtù di nuove istituzioni, con nuovi effetti.


Un terzo livello è quello del vero contro il falso.
Vero e falso sono concetti contingenti alla storia, in continuo movimento, sorretti da istituzioni che usano anche la coercizione per imporre la “verità” accettabile. Non è nel livello della proposizione dove Foucault situa la partizione vero/falso, ma su una scala più ampia, quella che considera la volontà di verità degli uomini lungo il corso della storia. Storicamente, per esempio, Foucault cita la Grecia del VI secolo, dove il discorso era vero se era pronunciato dalla autorità legittimata secondo una ritualizzazione canonica; un secolo dopo il discorso era vero in base a quel che effettivamente diceva. E’ la volontà di sapere che muta, e che pone l’osservatore da una prospettiva che deve soddisfare dei canoni di veridicità.
Parlando della “nostra” società, Foucault dice: “..Questa volontà di verità, come gli altri sistemi d’esclusione, poggia su di un supporto istituzionale: essa è rinforzata, e riconfermata insieme, da tutto uno spessore di pratiche come la pedagogia, certo, come il sistema dei libri..” (pag. 15).
Ciò che conta, quindi, è come la società valorizza, distribuisce e attribuisce il sapere (e la verità). Il discorso della verità, la volontà di verità, istituzionalmente sanzionata, preme sugli altri discorsi, perché parola del potere.

In sintesi Foucault ritiene che in ogni società la produzione del discorso è controllata,selezionata e organizzata in modo da scongiurarne i pericoli e i poteri. Riflettendoci su, ci renderemo presto conto che questo stesso discorso può essere vero anche all’interno di una società un po’ particolare : la famiglia.
In fondo essa altro non è che una “piccola società” che tende ad assicurare l’armonico sviluppo dei suoi membri. Come ogni società, è costituita da un piccolo gruppo di persone con alcune caratteristiche specifiche, essa è (o dovrebbe essere):

· il luogo primario della crescita e dell'educazione (crescita sana e responsabile)

· il luogo delle relazioni affettive e delle modalità di comunicazione

· il luogo di mediazione sociale dell'individuo nei confronti della comunità sociale più allargata.

Spesso però il nucleo familiare non corrisponde propriamente a questa descrizione. In particolare, la riflessione sull’interdetto di cui parla Foucault , può trovare consistenza piena in riferimento ad un fenomeno antico che solo da poco è uscito dall’ombra: la violenza in famiglia.


Drammi quotidiani si consumano nel silenzio delle pareti domestiche. Pareti che dovrebbero avvolgere la nostra intimità in un abbraccio affettivo che protegge e rassicura da ogni minaccia esterna. Succede, invece, più spesso di quanto si possa pensare, che l’inferno si nasconda proprio fra queste mura.
La violenza famigliare è senz’altro un fenomeno che per molto tempo è stato sottaciuto con la complicità delle tradizioni culturali o, per meglio dire, di quella disuguaglianza "biologica" fra i sessi che pone la donna in subalternità rispetto all’uomo. Stiamo parlando di una cultura patriarcale che sopravvive nel presente negando alle donne la completa indipendenza. Tant’è che ancor oggi certi "uomini padroni" non accettano che la propria compagna, o moglie che sia, tagli i lacci del loro potere e controllo. Insomma, la libertà femminile è considerata un oltraggio insopportabile. Una ferita che svilisce e fa scattare la molla delle aggressioni.


Gli autori di questi maltrattamenti non sono necessariamente drogati,emarginati o alcolizzati; sarebbe forse più semplice attribuire le cause ad un contesto di disagio psichico, ma la verità è che nella maggioranza dei casi si tratta di soggetti appartenenti a quella categoria di persone ”per bene”, verso cui si ripone fiducia, talvolta dalla carriera brillante e con tanto di ruolo rispettabile nella società. Insomma tipi mansueti, saggi ed educati, che di certo a parole condannano la violenza. Eppure la considerano legittima quando si scatena con furia incontrollata e per banali motivi sulla moglie, convivente o ex partner. Magari con i figli, anch’essi vittime o spettatori.
Non è semplice uscire da questa spirale di violenza che fa a pezzi la personalità della donna e la fa naufragare in una quotidianità dolorosa e traumatica. Molte vittime, infatti, anziché prendere in mano le redini della propria vita, rimangono intrappolate in questa ragnatela, magari auto-colpevolizzandosi.


La paura è la prima reazione a questo tipo di problema. Il timore di non essere capite o addirittura credute porta le donne a rinchiudersi in se stesse. Non dimentichiamo che, per molto tempo, le donne non hanno trovato il coraggio di uscire allo scoperto su queste angherie per via di quel fardello di "virtù femminili" che si attribuivano al gentil sesso come la "naturale" capacità di sopportazione. Così lo spettro della vergogna e del senso di colpa continua ad aleggiare nel mondo femminile che si svincola dall’autorità maschile.
Quindi, poche trovano la forza di denunciare questi drammi e, quando lo fanno, in pochissimi dei casi si arriva ad una condanna dell’autore della violenza. Per non parlare del fatto che, se la donna non ha un adeguato sistema di protezione attorno a sé, la denuncia può scatenare un aumento delle aggressioni mettendo a rischio la sua vita.
Dunque, "scaricare" il compagno non è affatto semplice. Tant’è che le vittime che si recano nei centri nati per essere loro d’aiuto, pur sottoposte a ripetuti soprusi, difficilmente si presentano con la valigia in mano, mentre quasi tutte hanno come conseguenza un equilibrio psicologico davvero frantumato che frena la loro capacità di intravedere possibili soluzioni.


Ecco perché la maggior parte di loro vede come unica possibilità il lungo e sofferente sentiero del taciuto o, per dirlo con le parole di Foucault, il terreno dell’interdetto.

la nuova biblioteca di babele

“…Ci sto provando; giorno e notte non riposo mai le membra, ci sto provando a trovare il “libro dei libri”, il libro totale che raccoglie tutti gli altri di quest’edificio infinito, ma non riesco a trovarlo, almeno fino ad ora la mia ricerca si dimostra vana, eppure ho aperto, sfogliato, letto centinaia di libri, migliaia di parole o frasi senza senso; lettere che si susseguivano senza ordine logico alcuno, intere pagine di punti, altre di sole virgole … brancolo ancora nel buio….”

La Biblioteca di Babele: racconto fantastico sì, ma con aspetti di realtà. Per Borges la biblioteca è un luogo in cui sono racchiusi in sale esagonali tutti i libri possibili, di 410 pagine in un “caos ordinato. Racconto fantastico si, ma filosoficamente rilevante: l’eterno ritorno. Nella sua infinitezza, la biblioteca ha un ritorno sempre all’origine. I libri depositati in questa biblioteca sono di 410 pagine con una sequenza finita di caratteri. Nei libri c’è una ripetizione costante. L’eterno ritorno è un ciclo chiuso in cui l’universo rinasce in base ai cicli temporali e ripete il suo corso eternamente, rimanendo sempre se stesso. Nietzsche prima di Borges: ”[…]in un sistema finito, con un tempo infinito, ogni combinazione può ripetersi infinite volte[…]”

Questa biblioteca, poi, non può avere riscontri nella realtà: ripetizioni, falsità e verità stanno insieme; non c’è omogeneità di fondo, quindi i libri sono privi di informazioni valide.

Ed invece, la Biblioteca di Babele esiste: una banca dati in cui tutto il sapere è contenuto e spiegato. Internet, il più grande mezzo di comunicazione di massa, di facile utilizzo. Basta avere un computer e una rete per navigare in questo mare mondiale senza spostarsi dalla propria scrivania. I collegamenti poggiano su criteri statistici di disponibilità e non su quei criteri così totalmente deterministici da essere spesso ritenuti più caotici; d'altra parte, i processi sono distribuiti piuttosto che centralizzati. Molti nodi sono collegati tra loro in diversi modi e tramite diversi path. Questo tipo di collegamento può essere compreso alla luce delle motivazioni che negli anni sessanta dettarono la nascita di Internet (allora denominata ARPANET): creare una rete di elaboratori decentrata che potesse resistere ad un attacco nucleare da parte dell'Unione Sovietica. Una tale rete decentrata sarebbe sopravvissuta a molti attacchi in quanto la struttura di comunicazione è organizzata a diversi livelli: secondo tale struttura, il protocollo TCP occupa il livello superiore rispetto a IP. Al di sopra e al di sotto di questi due protocolli ne funzionano degli altri, ed altri ancora sono collocati al loro stesso livello.

Richard Matthew Stallman dà una definizione significativa del World Wide Web:”Il World Wide Web ha le potenzialità per svilupparsi in un'enciclopedia universale che copra tutti i campi della conoscenza e in una biblioteca completa di corsi per la formazione”. E il punto principale è proprio questo, il World Wide Web è come una vera e propria enciclopedia universale di accesso pubblico che risiede in una grande biblioteca che è internet. Una biblioteca ordinata in cui è facile muoversi per trovare ciò che è più utile alla nostra vita. Dalla cultura al divertimento in un colpo di click: qualsiasi parola viene trovata, qualsiasi campo del sapere viene affrontato e spiegato, non c’è pericolo di perdersi in questo mare, e il navigatore, come un novello Ulisse, può anche viaggiare verso posti lontani, visitare luoghi antichi e poi tornare. Lo sviluppo mondiale è in mano ad una rete di computer che ci permette di fare cose incredibili e chissà se Borges si sarebbe divertito a navigare in Internet, o se avrebbe provato un senso di angoscia a sfogliare questo Libro di sabbia con un numero di pagine incalcolabile, dove non è facile rintracciare né la prima né l’ultima...

sabato 19 settembre 2009

LA MUSICA COME FONTE DI PIACERE.

Riflettendo bene sul saggio di Roland Barthes, “Le plaisir du texte” del 1973, vorrei paragonare al “piacere del testo” il piacere della musica: il piacere che si prova nell’ascoltare un brano musicale è lo stesso che si prova quando si legge un libro, un racconto, una storia.

Anche la musica stimola le regioni cerebrali che regolano le sensazioni euforiche del piacere quali l’eccitazione sessuale o il brivido di piacere.
Barthes, nel suo saggio, paragona “il piacere del testo” con il “piacere carnale”: secondo il filosofo la scrittura può essere avvicinata al Kamasutra del testo. È la scienza dei godimenti del linguaggio , un insieme di pratiche.
La scrittura genera testi, considerati esempi di “ars erotica”, perché devono far provare desiderio al lettore, devono far sì che il lettore, nel leggere un testo, un brano, una poesia, provi piacere.
Per Barthes un testo viene letto con piacere se è stato scritto nel piacere.
Il ruolo dello scrittore è proprio questo: scrivere, anche solo perché ne ha voglia; lo scopo che egli ha è quello di scrivere nel piacere per accrescere il piacere del lettore. Un obiettivo non semplice da centrare perché, anche un testo scritto nel piacere, può non trasmettere nulla a chi lo legge (il piacere è estremamente soggettivo). Al lettore va il compito di cercare il piacere nel testo creandosi uno “spazio del godimento”.
Se al contrario il testo risulta noioso saremo portati a dire che è stato scritto fuori da ogni godimento. Sarà un testo che balbetta, come se lo scrittore, scrivendolo, avesse assunto un linguaggio da lattante (uno dei motivi per cui un testo balbetta riguarda il semplice bisogno di scrivere dello scrittore).

Abbiamo accennato al paragone tra il “piacere del testo” con il “piacere carnale”.
Barthes si chiede: “la parte più erotica del corpo, non è forse dove l’abito si dischiude?”. Cosa ci vuole dire?
Ci dice che il piacere ci viene dato dall’ intermittenza. Nel caso del corpo possiamo provare piacere, ad esempio, quando ci troviamo di fronte ad un’ apparizione-sparizione, quando vediamo cioè, la pelle che luccica fra due capi, come fra i guanti e la manica, fra la maglia e il pantalone, ecc. (vedo/non vedo).
Nel caso del testo, vuole quindi dirci che il lettore prova piacere quando un testo salta le descrizioni, le considerazioni, le spiegazioni, come se volesse accelerare uno strip-tease, per arrivare a vedere il sesso della ballerina; è come abolire la suspense narrativa: è essa che ci fa stare con il cuore in gola e ci spinge a leggere un libro fino alla fine, per sapere come un racconto finisce.
Eppure è proprio questo che ci da il piacere di leggere un testo: le varie scalfitture che il lettore fa.

Ritornando al paragone che vorrei esporre, si può dire che il “confronto-rapporto” che c’è tra lo scrittore e il lettore, può esserci anche tra l’artista e l’ascoltatore.
Anche la musica può creare in noi piacere, può annoiarci, può essere ascoltata con poca attenzione o con quella che Barthes, per quanto riguarda il testo, ha definito “suspense narrativa”; ad esempio, questo può succedere quando si ascolta una nuova canzone, e si crea suspense perché siamo, in un certo senso, curiosi di sapere come sarà il ritornello, o la seconda strofa, o la fine di quella determinata canzone.

Quello che non coincide tra il leggere un testo e ascoltare un brano musicale, riguarda il saltare alcune parti. È difficile che riusciamo a saltare parti di una canzone, a meno che non riusciamo ad ascoltarle perché siamo troppo distratti o perché la canzone ci annoia. Pensiamo in questo caso al “testo che balbetta” proposto da Barthes ai lettori: una canzone può annoiarci, quindi non ci spinge ad ascoltare attentamente il testo e la musica del brano musicale. Diremo quindi che quest’ultimo può “balbettare”, perché probabilmente l’artista che l’ha composto non l’ha scritto nel piacere.
Una canzone che ci da piacere ci emoziona, ci fa rivivere momenti belli della nostra vita, come se fossimo immersi in un sogno.
È come se, mentre ascoltiamo quella canzone, entrassimo in un mondo irreale, dove nulla ci fa stare male; possiamo solo “allora” dire che siamo circondati dal piacere più profondo. La musica quindi, come il piacere, è appagamento, è euforia, è soddisfazione.

Barthes inoltre, ne “Il piacere del testo”, fa una distinzione tra piacere e godimento.
Il godimento è mancamento, è perdita, sconvolge il lettore che perde consistenza del proprio “Io”. Ripensando alla musica, in tutte le sue forme, il godimento è lo stesso che ci viene dalla danza: mentre si balla ci si “immedesima” cosi tanto che si esce, come è solito dire, dai “limiti della normalità”. La danza può essere dunque legata al godimento perché con essa si perde la consistenza del proprio “Io”. In questo caso, bisogna specificare, che il rapporto è tra la musica e il danzatore (o ballerino), e non più tra l’ artista e l’ ascoltatore.

Infine, Barthes considera il testo di piacere come un testo dicibile, al contrario del testo di godimento definito, oltre che testo indicibile, anche testo insostenibile e impossibile. Infatti, sul primo si possono muovere critiche, ma sul secondo non si può discutere.



Angela Rapanà





La follia...quel mistero oltre la ragione.

Riflettere sulla follia vuol dire riflettere sulla nozione di identità, su come percepiamo le cose, su che cos'è la realtà.
La follia non è solo disagio o malattia: con le sue categorie, ci provoca e interroga la nostra visione del mondo. Dire che cosa sia realmente la follia è un'impresa abbastanza ardua, eppure in tanti hanno provato a dare un valido significato e questo termine.
Nel passato come nel presente, la follia si è manifestata in tanti suoi piccoli aspetti: attraverso il genio degli scienziati, i versi dei poeti, le melodie dei musicisti, i colori vivaci sulle tele degli artisti, le gesta inconsulte dei potenti.
Ma oggi il termine "follia" ha un significato più comune per indicare semplicemente chi si ribella all'ordine della vita sociale per dar sfogo alle passioni, ai sentimenti, all'istinto, alla pura irrazionalità. Questo termine è entrato dunque a far parte dei linguaggio corrente e non può più essere tenuto al di fuori dei mondo reale come manifestazione della diversità, come un nemico che minaccia l'identità di ognuno.Dalla realtà dei giorni nostri si può evincere come l'uomo sia nato dall'incontro tra la verità e la follia e di come il mondo corra instancabilmente verso qualcosa che non c'è, mosso dallo sfrenato desiderio di potere, di conquista e di vittoria.

“Dal profondo del Medioevo il folle è colui il cui discorso non può circolare come quello degli altri,capita che la sua parola sia considerata come nulla e senza effetto,non avendo né verità né importanza… (“Dall ’ordine del discorso”)

Con queste parole, pronunciate nel 1970 al college de France, Foucault spiegava una delle procedure d’ esclusione del discorso: il partage (partizione e rigetto della follia) ovvero l’opposizione tra ragione e follia.

“E’ curioso constatare come per secoli in Europa la parola del folle o non era intesa, oppure, se lo era, veniva ascoltata come una parola di verità’ .(”Dall’ ordine del discorso”).

Le parole del folle erano, e sono la manifestazione della sua follia, il luogo in cui si compiva la partizione tra la sensatezza e l’insensatezza. Anche oggi, per Foucault, esistono meccanismi di partizione, che però sono azionati in virtù di nuove istituzioni, con nuovi effetti. Il folle lo si ascolta e decifra tramite una rete di psicologi, psicoanalisti e medici (“armatura del sapere”) in luoghi sanzionati, quali gli ospedali psichiatrici.
Michel Foucault, nato nel 1926 a Poitiers, studiò filosofia e psicologia all'Ecole Normale Supèrieure di Parigi .In seguito lavorò presso istituti culturali francesi e nel 1970 ricevette la nomina di professore di storia dei sistemi di pensiero al Collège de France. Morì a Parigi nel 1984. Gli interessi di Foucault, in principio, si concentrano sull'epistemologia: il suo problema sta nell'individuare le condizioni storiche in base alle quali la malattia e la follia si sono costituite come oggetti di scienza, dando luogo alla psicopatologia e alla medicina clinica, strettamente connesse alla costruzione di luoghi chiusi (la clinica e il manicomio) in cui si instaura un rapporto di dominio tra medico e paziente. E questi sono proprio i temi che Foucault affronta nelle sue prime opere di successo, Storia della follia nell'età classica (1961) e Nascita della clinica (1963).
“La follia è il linguaggio escluso – quello che contro il codice della lingua pronuncia parole senza significato (gli “insensati”, gli “imbecilli”, i “dementi”), o quello che pronuncia parole sacralizzate (i “violenti”, i “furiosi”), o ancora quello che fa passare significati interdetti (i “libertini”, i “testardi”).
La modificazione non si produsse realmente se non con Freud, quando l’esperienza della follia si è spostata verso l’ultima forma di interdizione del linguaggio. Ha cessato allora di essere errore di linguaggio, bestemmia proferita, o significato intollerabile (e in questo senso la psicanalisi è veramente la grande rimozione delle interdizioni, come diceva lo stesso Freud); è apparsa come una parola che si avvolge su se stessa, dicendo, al di sotto di ciò che dice, altre cose delle quali è al tempo stesso il solo codice possibile: linguaggio esoterico, se si vuole, poiché trattiene la sua lingua all’interno di una parola che alla fin fine non dice altre cose che questa implicazione.
Occorre dunque prendere l’opera di Freud per quel che è; essa non scopre il fatto che la follia è presa in una rete di significati comuni con il linguaggio di tutti i giorni, autorizzando così a parlarne nella piattezza quotidiana del vocabolario psicologico. Essa disloca l’esperienza europea della follia per situarla in quella regione pericolosa, trasgressiva sempre (dunque ancora interdetta, ma in una modalità particolare) che è quella dei linguaggi che si implicano essi stessi, enunciando cioè nel loro enunciato la lingua nella quale lo enunciano. Freud non ha scoperto l’identità perduta di un senso; ha delimitato la figura irrompente di un significante che non è assolutamente come gli altri. La qual cosa avrebbe dovuto essere sufficiente a proteggere la sua opera da tutte le interpretazioni psicologizzanti con cui questi cinquant’anni l’hanno ricoperta nel nome (derisorio) delle “scienze umane” e della loro unità asessuata.”

In questa lettura, tratta da”Storia della follia nell’età classica”, Michel Foucault si occupa di alcune caratteristiche della storia europea della follia, soffermandosi in particolare sull’apporto dato da Freud al problema.


E’ importante capire, di tutto questo discorso trattato, come la follia non allontana l'individuo da se stesso ma lo rende partecipe di una realtà che sta al di fuori delle regole e dei canoni del vivere civile; è una realtà che si nasconde nel profondo dell'anima, è l'essenza dello spirito.
Valentina Iannuzzi.

Le plaisir du texte

Roland Barthes, autore de “Le plaisir du texte ”(titolo italianizzato in “Il piacere del testo”), afferma l’esistenza di una scienza dei godimenti del linguaggio, cioè la scrittura, però prima di tutto è necessario rivelare una differenza fra godimento e piacere. Il piacere è un appagamento, mentre il godimento è come una sorta di mancamento, perdita. Se si giudica un testo secondo il piacere, non si può dire che esso sia buono o cattivo, non è possibile fare nessuna critica e nessuna graduatoria, in quanto il “per me” non è né soggettivo né essistenziale, bensì è nietzschiano. Un testo non è mai un dialogo, quindi non vi sono rischi di possibili aggressioni, ricatti; esso istituisce solamente una specie di isola, fa vedere la natura asociale del piacere e intravedere la verità scandalosa del godimento. Dietro ad un testo non sono presenti figure passive (i lettori) e figure attive (gli scrittori), e tanto meno un soggetto e un oggetto. Il testo ha una forma umana, è una parte del nostro corpo erotico. Esso ci sceglie, ci desidera, attraverso una serie di schemi invisibili (come per esempio il vocabolario, la leggibilità, ecc.) e ci comunica una stato calmo ed escluso. In mezzo ad esso è sempre presente l’autore, desidero la sua presenza ed ho bisogno della sua figura. Il piacere non è un elemento del testo, ma è una deriva, cioè un qualcosa di rivoluzionario e asociale che non può essere adottato da nessuna collettività. E’ scandaloso in quanto è atopico, non perché è immorale. Il piacere del testo è scandaloso e atopico, non è una parlata, una finzione. Tutti i testi che scrivo devono desiderarmi, devono darmi la prova di desiderarmi ed essa è la scrittura, quella scienza dei godimenti del linguaggio, il suo kamasutra. Però si ricordi che un francese su due non legge e quindi privandosi della lettura non solo rinuncia a quei canoni del bello ideale e della perfezione espressi dalle civiltà greco-romane, ma in particolar modo si priva del piacere.

“Se fosse possibile immaginare un’estetica del piacere testuale, bisognerebbe includervi: la scrittura ad alta voce” (Roland Barthes, Il piacere del testo, p. 65).

“La scrittura ad alta voce non è espressiva; è portata non dalle inflessioni drammatiche, le intonazioni maligne, gli accenti compiacenti, ma dalla grana della voce, che è un misto erotico di timbro e di linguaggio, e che può quindi essere anch’essa, al pari della dizione, la materia di un’arte: l’arte di condurre il proprio corpo” (ivi, p. 65).

La scrittura ad alta voce non è fonologica, ma fonetica e il suo obiettivo è ovviamente il linguaggio, un testo in cui si ha la possibilità di sentire la grana della voce con tutta la sensualità delle consonati e della vocali.Bisogna far si che si senta il respiro, che si veda il movimento sontuoso delle labbra al fine che la voce e la scrittura siano fresche. Per Barthes “la voce, la corporeità del parlare, si situa nell’articolazione del corpo e del discorso”. Il compito della voce è quello di fare da tramite, da snodo, fra corpo e parola. Ogni rapporto con la voce è necessariamente amoroso, perché non esiste scienza che possa esaurire la nostra voce. La grana della voce è quella qualità indefinibile che rende ogni voce unica perché porta traccia del corpo che la produce, del nostro vissuto. Le parole devono essere pronunciate e soprattutto intese, ascoltate, fatte passare attraverso l’orecchio.
Nell’antichità la retorica comprendeva una parte dimenticata: l’actio, considerato il fattore dominante nell’efficacia espressiva dell’oratore. Cicerone, nel mondo della latinità, è il più grande teorico dell’arte del dire. I fini dell’oratoria, sono il probare, il delectare e il flectere, per cui si prefigura quella finalità della ricerca della persuasione e del consenso che può anche essere, da un punto di vista sociale e politico, intesa come vero e proprio strumento di dominio, cioè come la tecnica della manipolazione del consenso e della persuasione. La retorica compie due operzioni passando per la mente e per l’animo dell’uditore: convincere (fidem facere) e commuovere (animun movere). Infatti con il probare l’oratore tende a dimostrare la verità delle sue tesi, tende insomma a convincere chi lo ascolta, e il mezzo comunicativo più adatto a compiere tale operazione è l’adozione di uno stile sobrio, piano, dimesso e discorsivo. Il delectare, invece, è finalizzato al diletto per cui l’oratore tende ad affascinare l’uditore con messaggi estetici per produrre conivolgimento e quindi consenso. Per tale motivo l’oratore tende ad usare uno stile ornato, cioè ricco di figure retoriche. Con il flectere, infine, l’oratore tende a piegare gli animi suscitando negli uditori forti emozioni usando uno stile sublime, patetico, coinvolgente e accattivante. Inoltre un oratore, oltre ad avere in possesso tali stili e saperli usare nel modo appropriato, deve essere in possesso di una larga cultura. Cicerone era maestro nell’arte del modulare il tono della voce e nel variare i gesti, i quali sembravano spontanei, ma che invece erano stati studiati meticolosamente.
Elvira Sacchetti

venerdì 18 settembre 2009

Il discorso del folle

Oggi la parola ha un’importanza straordinaria,noi viviamo di parole. E in una società come la nostra la produzione del discorso è ovviamente controllata e selezionata;cosa succederebbe se invece fosse libera? Tornerebbero a galla tutte le inquietudini a stento represse,l’inquietudine nei confronti di ciò che il discorso è nella sua materiale realtà di cosa pronunciata; l’inquietudine di avvertire dietro a questa attività poteri e pericoli che si immaginano a stento; l’inquietudine nel sospettare ciò che potrebbe celare un uso sbagliato della parola.. guerre, lotte ,dominazioni, battaglie …
Proprio per scongiurare un pericolo del genere si attuarono procedure di controllo e di delimitazione del discorso, che oggi vengono conosciute come i tre grandi sistemi d’esclusione che colpiscono il discorso:la parola interdetta,la partizione della follia e la volontà di verità.
Nel secondo principio d’esclusione,partizione & rigetto,viene affrontato un argomento che affonda le sue radici nel medioevo e che ancora oggi viene considerato l’oggetto di studio di diverse discipline che variano dal campo scientifico al campo dei mass media: LA FOLLIA

Un uomo grida:”io sono il padrone del mondo,da questo momento in poi mi ubbidirete poiché ho potere di vita e di morte …”
Due persone ascoltano quello che dice;
<> domanda il primo
<> risponde il secondo.

Come si fa a rispondere che l’uomo che grida in realtà sia pazzo?
Immaginiamo di far continuare il dialogo fra le due persone, alla risposta “costui è pazzo”, potrebbe seguire una domanda del genere <>
<>
Troppo spesso usiamo l’aggettivo “folle” per definire una realtà a noi estranea, per comportamenti diversi dal nostro,ma cosa ci dice che in realtà non siamo noi i folli? La follia,è definita oggi come pazzia,come alienazione mentale o ancora come stato di fanatismo avanzato. L’opposizione tra ragione e follia è sempre stata oggetto di studio,di ricerche,di critica,e ancora oggi rimane un argomento affascinante & misterioso al tempo stesso;questo perché non si ha la possibilità di conoscere in modo approfondito la follia senza rimanere intrappolati in essa. La follia del folle veniva riconosciuta attraverso le sue parole,esse erano il luogo in cui si compiva la partizione,ma non erano mai accolte o ascoltate. Nella nostra società non si ha il diritto di dire tutto,bisogna tener conto delle circostanze e del contenuto del discorso,poiché attraverso questo noi non esprimiamo solo i nostri pensieri e i nostri desideri,ma lottiamo per raggiungere il potere. Questa è una verità che tendiamo spesso a dimenticare; cosa succederebbe se togliessimo potere alla parola? Ci ritroveremmo in una situazione insostenibile,saremmo discriminati e considerati una nullità,saremmo i diversi, saremmo trattati proprio come era trattato il“folle”.
In che modo il folle veniva riconosciuto,escluso dalla società e internato? Sulla base di quali criteri si decideva sulla sua follia? All’interno di quale reticolo veniva intrappolato?
Dal profondo del medioevo il folle era colui il quale non era in grado di poter pronunciare un discorso,non per incapacità,bensì per la violenza psicologica che era costretto a subire,la sua parola era infatti considerata nulla,senza nessun significato, privata di ogni importanza,la sua parola non esisteva;ma ancora più grave era che ad essa non veniva riconosciuta nessuna verità;tutto l’immenso discorso del folle non era altro che rumore. Per secoli in Europa alla parola del folle venne riconosciuto uno strano potere,quello di annunciare verità nascoste,di conoscere l’avvenire,o ancora la grande capacità di vedere del tutto ingenuamente quello che la saggezza degli altri non poteva minimamente scorgere. Vi è quindi un importante capovolgimento,il folle non era più colui da deridere e da allontanare,bensì era colui da temere poiché la sua era una parola di verità.
Ma nonostante questo,il folle,in un modo o nell’altro non era nessuno; in entrambi i casi la sua parola,o rigettata non appena proferita o investita da una segreta ragione,non esisteva.
Il momento di passaggio verso un radicale cambiamento della concezione della follia si ha tra il XVI e il XVII sec., quando nella letteratura, Cervantes e Shakespeare, mostrano l’essere umano alle prese con nuovi ordini sociali, politici, simbolici. Laddove i confini dell’ordine consensuale diventano incerti, frastagliati e cangianti, l’eccedenza non è più
facilmente identificabile e classificabile, quindi non è più ritualizzabile e dominabile. L’eccesso della passione cortese avviene in un mondo dove non c’è più il codice cortese. L’eccesso religioso avviene in un mondo dove non c’è più un ordine sacro condiviso. L’eccesso della ragione avviene in un mondo dove la ragione è slegata dall’ordine etico.
Ora un folle è chiamato a restaurare un ordine ormai dissolto: Don Chisciotte quello della cavalleria, Amleto quello della condizione umana stessa: «Il mondo è fuori squadra: che maledetta sorte esser nato per rimetterlo in sesto».
Ed è anche questo il momento in cui con l’avvento della scienza moderna si inaugura un diverso statuto della soggettività. Sarà proprio la scienza a ridurre la follia a malattia e a creare pratiche di internamento e di esclusione di tutte le forme di eccedenza. Nasce un diverso
modo di vedere la follia, una nuova “sensibilità” che la rigetta e la rinchiude. Nascono le istituzioni totali, che la escludono dalla vita quotidiana e condivisa, la riducono al silenzio, e medicalizzandola cercano di sbarazzarsi di quell’interrogativo enigmatico e inquietante, di
quella verità inudibile che la follia sembra porre sulla condizione umana. Come ha lapidariamente evidenziato Foucault: «La follia non la si può trovare allo stato selvaggio. La
follia esiste solo all’interno della società, non esiste al di fuori delle forme della sensibilità che la isolano e delle forme di repulsione che la escludono o la catturano. Così, si può dire che nel
Medioevo, poi durante il Rinascimento, la follia è presente nell’orizzonte sociale come un fatto
estetico o quotidiano; poi nel XVII sec., a partire dall’internamento, la follia attraversa un periodo di silenzio, di esclusione. Essa ha perduto quella funzione di manifestazione, di rivelazione che aveva all’epoca di Shakespeare e di Cervantes (per esempio, Lady Macbeth
comincia a dire la verità quando diventa folle), e diventa derisoria, menzognera. Infine, il XX sec . mette mano alla follia, la riduce a un fenomeno naturale, legato alla verità del mondo
[mondo nel senso di naturale-biologico e non umano]. Da questa presa di possesso positivista dovevano derivare, da una parte, la filantropia sprezzante che ogni psichiatria manifesta nei
confronti del folle, dall’altra, la grande lirica che troviamo nella poesia di Nerval fino ad Artaud, e che è uno sforzo per restituire all’esperienza della follia una profondità e un potere di rivelazione che erano stati annientati dall’internamento».
Queste parole di Foucault ci permettono di mettere in evidenza come la follia oggi sia sdoppiata in due diverse rappresentazioni: da una parte una concezione classica e letteraria; dall’altra una concezione moderna e scientifica.


Oggi pensiamo che la questione sia definitivamente chiusa,che oggi siamo troppo “avanti”per avere ancora queste idee “primitive”. Ma come si reagisce veramente ? Consideriamo la follia quasi normale?
Follia e normalità non sono due situazioni escludenti l’un l’altra,non sono due contrari perché tra le due c’è sempre possibilità di passaggio e in certi sensi la follia è contenuta nella normalità. In questo senso la psichiatria ci viene in aiuto e prova a spiegarne le strutture interne e decisamente complicate. L’io si trova in mezzo a due mondi,un mondo esterno e un mondo interiore; il mondo esterno è costituito da ciò che proviene da altro,non da se stessi,è il mondo dell’esperienza in cui ci sono le cose,in cui ci sono i pericoli. Qui vi sono inoltre gli altri verso i quali proviamo simpatie o antipatie,spesso immediate;vi sono i legami,amici o nemici. In relazione a questo mondo possiamo subire ingiustizie e sentire frustrazioni. L’insieme del mondo esterno è il teatro sociale,la società inoltre ci cataloga e pretende da noi che si faccia ciò che essa impone. Ad esso bisogna adattarsi, nel senso anche attivo che si deve calarvisi dentro. E calarsi in esso è ineludibile, anche se spesso tale mondo non è molto attraente.
Dall’altro parte c’è il mondo interiore, che è altrettanto se non più complicato di quello esterno. Qui vi sono vissuti, idee, risentimenti, sensazioni di incomprensione. Qui vi sono i sogni. Questo è il teatro interno, che è anche un mondo di paure senza oggetto. Dentro di esso ci sono i ricordi sgradevoli. E molti dati di cui non abbiamo consapevolezza, che costituiscono una presenza dell’assente. Vi sono segnali subliminali,dati che vengono associati in modo inconsapevole. Ma questo essere improntati in modo inconsapevole è esperienza presente anche nell’adulto. Questo è il mondo da cui può venire la voglia di non esistere. Il mondo interno è un mondo ignoto dentro di noi, ma anche quello esterno ci è perlopiù ignoto. E noi siamo presi tra i due mondi, fragili, posti tra desiderio e azione. Sembra quasi che il folle sia un prigioniero,prigioniero di se stesso,e sembra quasi rispecchiare un po’ tutti noi. Diceva Rousseau: “l’uomo è nato libero,e dappertutto è in catene”.

Dal 1904 al 1978 per la legislazione italiana folle è definito chi è “pericoloso a sé o ad altri e di pubblico scandalo”. Il trattamento del folle prevedeva quindi innanzitutto impedirne la pericolosità.
Ma a partire da Freud si è sviluppato anche il trattamento di cura attraverso la parola. Una parola nella comunicazione, ossia scambiata entro lo stesso codice. Se infatti i codici sono diversi, come spesso accade, non si comunica. La parola dunque all’interno del transfert che è un alone, una comunicazione affettiva, che è sistema di comunicazione totale. Ed è nella comunicazione affettiva che c’è la possibilità di capire il non-detto. In questa ci sono il gesto e lo sguardo, che sono comunicazione a tutti gli effetti, come dimostra la partecipazione silenziosa in cui consistono i rituali dei “primitivi”. Questo comunicare è un comprendere, che è diverso dallo spiegare. Un conto è infatti spiegare, un altro comprendere. Comprendere vuol dire andare-verso, prendere-con e queste forme rimandano ad una forma di abbraccio. Comprendere però ,soprattutto, implica tenere il tutto intero. Mentre la spiegazione tende a dividere. Perciò quando c’è transfert le parole generano cambiamento, si passa appunto alla parola-legame. Questa è quella complicata fase dove
“parola” è mettersi in comunicazione, è elemento di consapevolezza che ci siamo. L’ assenza di questo legame è solitudine, che nella solitudine di massa diventa “l’essere come se si fosse trasparenti.”
C'è la follia della lunga storia della psichiatria, che dal XVII sec. si è impegnata a studiare e a trattare i pazzi. La follia dei grandi quadri nosografici, dei manuali di psicopatologia, delle scuole di pensiero clinico. Abbiamo la follia nelle istituzioni totali.
E poi c'è qualcos'altro. Come un'altra follia. La follia dei grandi testi letterari e drammaturgici. La follia di Amleto, di Re Lear, di Don Chisciotte. Prima ancora la follia di Orlando. Molto dopo la pazzia del pirandelliano Enrico IV. Tra loro molto diverse, ma in
ogni caso dalla stessa parte. Dalla parte della scrittura che non cessa mai di interrogarci.
La follia presa tra due, dunque. Tra la clinica e il campo dell'arte.
Potremmo dire, la follia come la si incontra nelle istituzioni deputate alla cura e al trattamento e lo sfavillio della follia raccontata dal genio artistico.
Abbiamo quindi uno stesso oggetto ma su due registri differenti. Ora la questione è cercare di indicare a cosa risponde tale differenza.
Foucault ci dà una prima indicazione a proposito della letteratura. La follia nella letteratura ha una funzione di rivelazione, di verità. Quando i personaggi della letteratura sono folli, lo sono per dire o indicare una verità. Una verità che possono incarnare solo a partire da
quella posizione e che gli altri personaggi non possono occupare.
Eppure qualcosa non torna. La follia non ci dice soltanto una verità, ci mostra anche una sofferenza.
Quello che emerge sul versante della clinica e della pratica istituzionale non è sicuramente la follia nel suo versante artistico, filosofico, esistenziale, la follia in grado di aprire alle verità fondamentali dell’esistenza. Più spesso nella pratica clinica ci si trova di fronte a
persone che patiscono la loro condizione con effetti devastanti nel corpo e nella gestione della vita quotidiana.
Sembra allora che la letteratura e l’arte in genere abbiano a che fare con la verità che la follia riesce a mostrare, mentre la clinica abbia a che fare con le conseguenze di tale condizione. Conseguenze che si iscrivono nel reale del corpo, della sofferenza e a cui occorre dare una risposta.
La letteratura e la clinica sembrano guardare a due aspetti diversi della follia. La nostra ipotesi e che si possa tentare di avere un approccio sinottico e portare nel campo clinico la questione della verità che la letteratura e l’arte in genere esplorano, e d’altro canto tentare
di riconoscere ed approfondire la parte di sofferenza e il prezzo che il folle paga per la sua
“scelta” di libertà; un prezzo che spesso fa di quella “libertà” una prigione.

Basta poco per accorgersi che la vecchia partizione è ancora valida. L’esempio della psichiatria lo mostra esattamente. Quello che è cambiata è la rete di istituzioni;non si ha più una società del medioevo che mette sotto accusa il discorso del folle,ma una società che permette a qualcuno di ascoltare questa parola,di trattarla e di studiarla senza pietà. La partizione oggi agisce altrimenti,sotto linee diverse e anche gli effetti prodotti sono diversi.
In realtà il problema della follia, nonostante gli studi approfonditi condotti nei secoli da sapienti prima e scienziati poi, rimane ancora indefinito, un fenomeno dai contorni poco chiari, un mistero, come tutte le manifestazioni più importanti dell'esistenza umana. Forse, da questo punto di vista, conviene a tutti noi un richiamo al passato. Dare maggior spazio nelle nostre vite alla follia significa, oggi, accettare che esistano persone che la pensano diversamente da noi, che concepiscono una diversa visione del mondo; significa provare compassione per chi soffre, ma anche acquisire apertura mentale, flessibilità, capacità di entrare in contatto con gli altri e, soprattutto, con l'altro che vive dentro di noi, con i nostri aspetti ombra che fatichiamo ad accettare, perché collidono con la nostra routine e con la funzionalità dei nostri ruoli quotidiani. Significa tollerare e promuovere il dissenso. Non dimentichiamo che gli atteggiamenti più duri e autoritari nei confronti della follia sono quelli adottati nei paesi a sistema dittatoriale. Non scordiamo che nella ex Unione Sovietica venivano reclusi in manicomio tutti coloro che manifestavano il proprio dissenso verso il potere. Spesso si trattava di intellettuali di grande valore, cui venne attribuito in seguito il premio Nobel. E le diagnosi di follia erano formulate da psichiatri accreditati dalla comunità scientifica internazionale.
Come da noi Basaglia, anche Foucault in Francia, perorava la causa della chiusura dei manicomi, ben sapendo che non bastava per porre fine alle vite bruciate tra le sue mura, silenzioso olocausto consumato nel nome della scienza, per ottenere dalla società una rivisitazione dei suoi rapporti con le figure della follia e, più in generale, del disagio. A ciò si deve aggiungere che la scienza oggi si è fatta più esigente, più asettica, persino più pulita, anche se decisamente più invasiva di quanto non fosse l' istituzione manicomiale. Oggi a essere minacciata è la società come istituzione totale, dove troppi individui, nel tentativo di gestire al meglio i propri umori, preferiscono, alla relazione sociale, il ricorso quotidiano alle pillole, fino a trasformarsi in robot chimici sempre all' altezza delle loro prestazioni nel cupo silenzio delle loro anime.
Siamo bravi a puntare il dito e dire “sei un folle”;forse siamo meno bravi ad aprire la nostra mente e provare a comprendere .. è ovvio che la follia ci faccia paura,perché non la conosciamo,ma non per questo abbiamo il diritto di discriminare le persone e di porre fine alla loro vita. Impariamo dal passato,non commettiamo più gli stessi errori,perché se prima lo facevamo in nome della scienza..oggi per cosa lo facciamo? In nome della paura?
C’è un po’ di follia in ognuno di noi,ed è inutile tentare di negarlo,di reprimere questo aspetto..la paura è quella di poter essere trattati come era trattato LUI? Il folle? Dobbiamo cambiare le cose,perché ogni parola ha la sua importanza,ha la sua verità,perché oggi è inconcepibile poter pensare che il discorso sia solo un rumore.. Cambiando questo potremmo cambiare la condizione di tutti.. Perché il discorso non è semplicemente ciò che manifesta il desiderio,non è solo ciò che traduce le lotte o i sistemi di dominazione,ma è ciò per cui,attraverso cui si lotta ,è il potere di cui si cerca di impadronirsi.

il discorso del folle

Oggi la parola ha un’importanza straordinaria,noi viviamo di parole. E in una società come la nostra la produzione del discorso è ovviamente controllata e selezionata;cosa succederebbe se invece fosse libera? Tornerebbero a galla tutte le inquietudini a stento represse,l’inquietudine nei confronti di ciò che il discorso è nella sua materiale realtà di cosa pronunciata; l’inquietudine di avvertire dietro a questa attività poteri e pericoli che si immaginano a stento; l’inquietudine nel sospettare ciò che potrebbe celare un uso sbagliato della parola.. guerre, lotte ,dominazioni, battaglie …
Proprio per scongiurare un pericolo del genere si attuarono procedure di controllo e di delimitazione del discorso, che oggi vengono conosciute come i tre grandi sistemi d’esclusione che colpiscono il discorso:la parola interdetta,la partizione della follia e la volontà di verità.
Nel secondo principio d’esclusione,partizione & rigetto,viene affrontato un argomento che affonda le sue radici nel medioevo e che ancora oggi viene considerato l’oggetto di studio di diverse discipline che variano dal campo scientifico al campo dei mass media: LA FOLLIA

Un uomo grida:”io sono il padrone del mondo,da questo momento in poi mi ubbidirete poiché ho potere di vita e di morte …”
Due persone ascoltano quello che dice;
<> domanda il primo
<> risponde il secondo.

Come si fa a rispondere che l’uomo che grida in realtà sia pazzo?
Immaginiamo di far continuare il dialogo fra le due persone, alla risposta “costui è pazzo”, potrebbe seguire una domanda del genere <>
<>
Troppo spesso usiamo l’aggettivo “folle” per definire una realtà a noi estranea, per comportamenti diversi dal nostro,ma cosa ci dice che in realtà non siamo noi i folli? La follia,è definita oggi come pazzia,come alienazione mentale o ancora come stato di fanatismo avanzato. L’opposizione tra ragione e follia è sempre stata oggetto di studio,di ricerche,di critica,e ancora oggi rimane un argomento affascinante & misterioso al tempo stesso;questo perché non si ha la possibilità di conoscere in modo approfondito la follia senza rimanere intrappolati in essa. La follia del folle veniva riconosciuta attraverso le sue parole,esse erano il luogo in cui si compiva la partizione,ma non erano mai accolte o ascoltate. Nella nostra società non si ha il diritto di dire tutto,bisogna tener conto delle circostanze e del contenuto del discorso,poiché attraverso questo noi non esprimiamo solo i nostri pensieri e i nostri desideri,ma lottiamo per raggiungere il potere. Questa è una verità che tendiamo spesso a dimenticare; cosa succederebbe se togliessimo potere alla parola? Ci ritroveremmo in una situazione insostenibile,saremmo discriminati e considerati una nullità,saremmo i diversi, saremmo trattati proprio come era trattato il“folle”.
In che modo il folle veniva riconosciuto,escluso dalla società e internato? Sulla base di quali criteri si decideva sulla sua follia? All’interno di quale reticolo veniva intrappolato?
Dal profondo del medioevo il folle era colui il quale non era in grado di poter pronunciare un discorso,non per incapacità,bensì per la violenza psicologica che era costretto a subire,la sua parola era infatti considerata nulla,senza nessun significato, privata di ogni importanza,la sua parola non esisteva;ma ancora più grave era che ad essa non veniva riconosciuta nessuna verità;tutto l’immenso discorso del folle non era altro che rumore. Per secoli in Europa alla parola del folle venne riconosciuto uno strano potere,quello di annunciare verità nascoste,di conoscere l’avvenire,o ancora la grande capacità di vedere del tutto ingenuamente quello che la saggezza degli altri non poteva minimamente scorgere. Vi è quindi un importante capovolgimento,il folle non era più colui da deridere e da allontanare,bensì era colui da temere poiché la sua era una parola di verità.
Ma nonostante questo,il folle,in un modo o nell’altro non era nessuno; in entrambi i casi la sua parola,o rigettata non appena proferita o investita da una segreta ragione,non esisteva.
Il momento di passaggio verso un radicale cambiamento della concezione della follia si ha tra il XVI e il XVII sec., quando nella letteratura, Cervantes e Shakespeare, mostrano l’essere umano alle prese con nuovi ordini sociali, politici, simbolici. Laddove i confini dell’ordine consensuale diventano incerti, frastagliati e cangianti, l’eccedenza non è più
facilmente identificabile e classificabile, quindi non è più ritualizzabile e dominabile. L’eccesso della passione cortese avviene in un mondo dove non c’è più il codice cortese. L’eccesso religioso avviene in un mondo dove non c’è più un ordine sacro condiviso. L’eccesso della ragione avviene in un mondo dove la ragione è slegata dall’ordine etico.
Ora un folle è chiamato a restaurare un ordine ormai dissolto: Don Chisciotte quello della cavalleria, Amleto quello della condizione umana stessa: «Il mondo è fuori squadra: che maledetta sorte esser nato per rimetterlo in sesto».
Ed è anche questo il momento in cui con l’avvento della scienza moderna si inaugura un diverso statuto della soggettività. Sarà proprio la scienza a ridurre la follia a malattia e a creare pratiche di internamento e di esclusione di tutte le forme di eccedenza. Nasce un diverso
modo di vedere la follia, una nuova “sensibilità” che la rigetta e la rinchiude. Nascono le istituzioni totali, che la escludono dalla vita quotidiana e condivisa, la riducono al silenzio, e medicalizzandola cercano di sbarazzarsi di quell’interrogativo enigmatico e inquietante, di
quella verità inudibile che la follia sembra porre sulla condizione umana. Come ha lapidariamente evidenziato Foucault: «La follia non la si può trovare allo stato selvaggio. La
follia esiste solo all’interno della società, non esiste al di fuori delle forme della sensibilità che la isolano e delle forme di repulsione che la escludono o la catturano. Così, si può dire che nel
Medioevo, poi durante il Rinascimento, la follia è presente nell’orizzonte sociale come un fatto
estetico o quotidiano; poi nel XVII sec., a partire dall’internamento, la follia attraversa un periodo di silenzio, di esclusione. Essa ha perduto quella funzione di manifestazione, di rivelazione che aveva all’epoca di Shakespeare e di Cervantes (per esempio, Lady Macbeth
comincia a dire la verità quando diventa folle), e diventa derisoria, menzognera. Infine, il XX sec . mette mano alla follia, la riduce a un fenomeno naturale, legato alla verità del mondo
[mondo nel senso di naturale-biologico e non umano]. Da questa presa di possesso positivista dovevano derivare, da una parte, la filantropia sprezzante che ogni psichiatria manifesta nei
confronti del folle, dall’altra, la grande lirica che troviamo nella poesia di Nerval fino ad Artaud, e che è uno sforzo per restituire all’esperienza della follia una profondità e un potere di rivelazione che erano stati annientati dall’internamento».
Queste parole di Foucault ci permettono di mettere in evidenza come la follia oggi sia sdoppiata in due diverse rappresentazioni: da una parte una concezione classica e letteraria; dall’altra una concezione moderna e scientifica.


Oggi pensiamo che la questione sia definitivamente chiusa,che oggi siamo troppo “avanti”per avere ancora queste idee “primitive”. Ma come si reagisce veramente ? Consideriamo la follia quasi normale?
Follia e normalità non sono due situazioni escludenti l’un l’altra,non sono due contrari perché tra le due c’è sempre possibilità di passaggio e in certi sensi la follia è contenuta nella normalità. In questo senso la psichiatria ci viene in aiuto e prova a spiegarne le strutture interne e decisamente complicate. L’io si trova in mezzo a due mondi,un mondo esterno e un mondo interiore; il mondo esterno è costituito da ciò che proviene da altro,non da se stessi,è il mondo dell’esperienza in cui ci sono le cose,in cui ci sono i pericoli. Qui vi sono inoltre gli altri verso i quali proviamo simpatie o antipatie,spesso immediate;vi sono i legami,amici o nemici. In relazione a questo mondo possiamo subire ingiustizie e sentire frustrazioni. L’insieme del mondo esterno è il teatro sociale,la società inoltre ci cataloga e pretende da noi che si faccia ciò che essa impone. Ad esso bisogna adattarsi, nel senso anche attivo che si deve calarvisi dentro. E calarsi in esso è ineludibile, anche se spesso tale mondo non è molto attraente.
Dall’altro parte c’è il mondo interiore, che è altrettanto se non più complicato di quello esterno. Qui vi sono vissuti, idee, risentimenti, sensazioni di incomprensione. Qui vi sono i sogni. Questo è il teatro interno, che è anche un mondo di paure senza oggetto. Dentro di esso ci sono i ricordi sgradevoli. E molti dati di cui non abbiamo consapevolezza, che costituiscono una presenza dell’assente. Vi sono segnali subliminali,dati che vengono associati in modo inconsapevole. Ma questo essere improntati in modo inconsapevole è esperienza presente anche nell’adulto. Questo è il mondo da cui può venire la voglia di non esistere. Il mondo interno è un mondo ignoto dentro di noi, ma anche quello esterno ci è perlopiù ignoto. E noi siamo presi tra i due mondi, fragili, posti tra desiderio e azione. Sembra quasi che il folle sia un prigioniero,prigioniero di se stesso,e sembra quasi rispecchiare un po’ tutti noi. Diceva Rousseau: “l’uomo è nato libero,e dappertutto è in catene”.

Dal 1904 al 1978 per la legislazione italiana folle è definito chi è “pericoloso a sé o ad altri e di pubblico scandalo”. Il trattamento del folle prevedeva quindi innanzitutto impedirne la pericolosità.
Ma a partire da Freud si è sviluppato anche il trattamento di cura attraverso la parola. Una parola nella comunicazione, ossia scambiata entro lo stesso codice. Se infatti i codici sono diversi, come spesso accade, non si comunica. La parola dunque all’interno del transfert che è un alone, una comunicazione affettiva, che è sistema di comunicazione totale. Ed è nella comunicazione affettiva che c’è la possibilità di capire il non-detto. In questa ci sono il gesto e lo sguardo, che sono comunicazione a tutti gli effetti, come dimostra la partecipazione silenziosa in cui consistono i rituali dei “primitivi”. Questo comunicare è un comprendere, che è diverso dallo spiegare. Un conto è infatti spiegare, un altro comprendere. Comprendere vuol dire andare-verso, prendere-con e queste forme rimandano ad una forma di abbraccio. Comprendere però ,soprattutto, implica tenere il tutto intero. Mentre la spiegazione tende a dividere. Perciò quando c’è transfert le parole generano cambiamento, si passa appunto alla parola-legame. Questa è quella complicata fase dove
“parola” è mettersi in comunicazione, è elemento di consapevolezza che ci siamo. L’ assenza di questo legame è solitudine, che nella solitudine di massa diventa “l’essere come se si fosse trasparenti.”
C'è la follia della lunga storia della psichiatria, che dal XVII sec. si è impegnata a studiare e a trattare i pazzi. La follia dei grandi quadri nosografici, dei manuali di psicopatologia, delle scuole di pensiero clinico. Abbiamo la follia nelle istituzioni totali.
E poi c'è qualcos'altro. Come un'altra follia. La follia dei grandi testi letterari e drammaturgici. La follia di Amleto, di Re Lear, di Don Chisciotte. Prima ancora la follia di Orlando. Molto dopo la pazzia del pirandelliano Enrico IV. Tra loro molto diverse, ma in
ogni caso dalla stessa parte. Dalla parte della scrittura che non cessa mai di interrogarci.
La follia presa tra due, dunque. Tra la clinica e il campo dell'arte.
Potremmo dire, la follia come la si incontra nelle istituzioni deputate alla cura e al trattamento e lo sfavillio della follia raccontata dal genio artistico.
Abbiamo quindi uno stesso oggetto ma su due registri differenti. Ora la questione è cercare di indicare a cosa risponde tale differenza.
Foucault ci dà una prima indicazione a proposito della letteratura. La follia nella letteratura ha una funzione di rivelazione, di verità. Quando i personaggi della letteratura sono folli, lo sono per dire o indicare una verità. Una verità che possono incarnare solo a partire da
quella posizione e che gli altri personaggi non possono occupare.
Eppure qualcosa non torna. La follia non ci dice soltanto una verità, ci mostra anche una sofferenza.
Quello che emerge sul versante della clinica e della pratica istituzionale non è sicuramente la follia nel suo versante artistico, filosofico, esistenziale, la follia in grado di aprire alle verità fondamentali dell’esistenza. Più spesso nella pratica clinica ci si trova di fronte a
persone che patiscono la loro condizione con effetti devastanti nel corpo e nella gestione della vita quotidiana.
Sembra allora che la letteratura e l’arte in genere abbiano a che fare con la verità che la follia riesce a mostrare, mentre la clinica abbia a che fare con le conseguenze di tale condizione. Conseguenze che si iscrivono nel reale del corpo, della sofferenza e a cui occorre dare una risposta.
La letteratura e la clinica sembrano guardare a due aspetti diversi della follia. La nostra ipotesi e che si possa tentare di avere un approccio sinottico e portare nel campo clinico la questione della verità che la letteratura e l’arte in genere esplorano, e d’altro canto tentare
di riconoscere ed approfondire la parte di sofferenza e il prezzo che il folle paga per la sua
“scelta” di libertà; un prezzo che spesso fa di quella “libertà” una prigione.

Basta poco per accorgersi che la vecchia partizione è ancora valida. L’esempio della psichiatria lo mostra esattamente. Quello che è cambiata è la rete di istituzioni;non si ha più una società del medioevo che mette sotto accusa il discorso del folle,ma una società che permette a qualcuno di ascoltare questa parola,di trattarla e di studiarla senza pietà. La partizione oggi agisce altrimenti,sotto linee diverse e anche gli effetti prodotti sono diversi.
In realtà il problema della follia, nonostante gli studi approfonditi condotti nei secoli da sapienti prima e scienziati poi, rimane ancora indefinito, un fenomeno dai contorni poco chiari, un mistero, come tutte le manifestazioni più importanti dell'esistenza umana. Forse, da questo punto di vista, conviene a tutti noi un richiamo al passato. Dare maggior spazio nelle nostre vite alla follia significa, oggi, accettare che esistano persone che la pensano diversamente da noi, che concepiscono una diversa visione del mondo; significa provare compassione per chi soffre, ma anche acquisire apertura mentale, flessibilità, capacità di entrare in contatto con gli altri e, soprattutto, con l'altro che vive dentro di noi, con i nostri aspetti ombra che fatichiamo ad accettare, perché collidono con la nostra routine e con la funzionalità dei nostri ruoli quotidiani. Significa tollerare e promuovere il dissenso. Non dimentichiamo che gli atteggiamenti più duri e autoritari nei confronti della follia sono quelli adottati nei paesi a sistema dittatoriale. Non scordiamo che nella ex Unione Sovietica venivano reclusi in manicomio tutti coloro che manifestavano il proprio dissenso verso il potere. Spesso si trattava di intellettuali di grande valore, cui venne attribuito in seguito il premio Nobel. E le diagnosi di follia erano formulate da psichiatri accreditati dalla comunità scientifica internazionale.
Come da noi Basaglia, anche Foucault in Francia, perorava la causa della chiusura dei manicomi, ben sapendo che non bastava per porre fine alle vite bruciate tra le sue mura, silenzioso olocausto consumato nel nome della scienza, per ottenere dalla società una rivisitazione dei suoi rapporti con le figure della follia e, più in generale, del disagio. A ciò si deve aggiungere che la scienza oggi si è fatta più esigente, più asettica, persino più pulita, anche se decisamente più invasiva di quanto non fosse l' istituzione manicomiale. Oggi a essere minacciata è la società come istituzione totale, dove troppi individui, nel tentativo di gestire al meglio i propri umori, preferiscono, alla relazione sociale, il ricorso quotidiano alle pillole, fino a trasformarsi in robot chimici sempre all' altezza delle loro prestazioni nel cupo silenzio delle loro anime.
Siamo bravi a puntare il dito e dire “sei un folle”;forse siamo meno bravi ad aprire la nostra mente e provare a comprendere .. è ovvio che la follia ci faccia paura,perché non la conosciamo,ma non per questo abbiamo il diritto di discriminare le persone e di porre fine alla loro vita. Impariamo dal passato,non commettiamo più gli stessi errori,perché se prima lo facevamo in nome della scienza..oggi per cosa lo facciamo? In nome della paura?
C’è un po’ di follia in ognuno di noi,ed è inutile tentare di negarlo,di reprimere questo aspetto..la paura è quella di poter essere trattati come era trattato LUI? Il folle? Dobbiamo cambiare le cose,perché ogni parola ha la sua importanza,ha la sua verità,perché oggi è inconcepibile poter pensare che il discorso sia solo un rumore.. Cambiando questo potremmo cambiare la condizione di tutti.. Perché il discorso non è semplicemente ciò che manifesta il desiderio,non è solo ciò che traduce le lotte o i sistemi di dominazione,ma è ciò per cui,attraverso cui si lotta ,è il potere di cui si cerca di impadronirsi.

giovedì 17 settembre 2009

FOUCAULT OGGI

Il discorso per l'autore ha una sua materiale realtà,ma non se ne può predire la durata è pervaso da poteri e pericoli che non si possono cogliere istintivamente.
Nelle sue tesi Foucault rende espliciti il controllo la selezione.l'organizzazione della produzione del discorso.
Foucoult non fu una persona semplice come non è semplice il suo pensiero.Viveva fuori dagli schemi.pensava e scriveva fuori dagli schemi.
Ha lavorato pensato e agito non curandosi di risultare simpatico o compiacere a qualcuno.
In fondo basta questo oggi a spiegare i due atteggiamenti più diffusi tra gli intellettuali omosessuali,da un lato celebrazioni acritiche che fanno di lui una specie di martire del movimento gay,dall'altra atteggiamenti liquidatori che lo criticano per non aver mai partecipato pubblicamente al movimento gay e di non aver percorso la strada del "coming out".
foucoult ha percorso altre strade certo,a volte sbagliando.ha peccato di ingenuità o più semolicemente di avventatezza.
Ma comunque a venti anni esatti dalla sua scomparsa ha ancora molto da insegnare e la sua influenza nella cultura omossessuale non accenna a diminuire
la lucidità del suo pensiero e di alcune sue opinioni proprio per la loro polemicità possono essere ancora di enorme aiuto per la ricerca,per il risveglio delle coscienze
I suoi libri continuano ad essere esattemente ciò che lui desiderava che fossero;cioè delle "esperienze".

mercoledì 16 settembre 2009

Storia della follia


Dopo aver dato uno sguardo agli scritti in questo blog mi sono soffermato su un tema che mi ha colpito principalmente: la follia, dato che tale tema è trattato da numerosi secoli e che ancora oggi al nostro millennio lascia numerosi dubbi e dilemmi mai colmati riguardo la controversia della figura del folle. A questo punto ne ho preso spunto partendo con un resoconto de “L’ordine del discorso”,testo tra l’altro della lezione inaugurale di Michel Foucault presentato al Collège de France nel 1970.

Storia della follia nell'età classica è stata la tesi di dottorato e la prima opera importante dello storico e filosofo francese Michel Foucault (1926-1984), il cui titolo originale era “Folie et déraison” e pubblicato nel 1961.

Lo scritto contiene uno studio svolto dall'autore sugli sviluppi dell'idea della follia nella storia. Focault prende iniziativa da un analisi dei lebbrosari del Medioevo e di come gli affetti del morbo di Hansen venissero ghettizzati nella società del XV secolo. Questo porta a chiedersi cosa fossero diventati i lebbrosari quando la malattia era svanita, a tal punto traccia un’idea della storia della malattia del tempo. Per Focault il folle dal profondo del Medioevo è colui il cui discorso non può circolare come quello degli altri e capita spesso che”la sua parola sia considerata come nulla e senza effetto , non avendo né verità né importanza, ma al contrario , in compenso, le vengono attribuite anche strane capacità nascoste, quali la possibilità di annunciare l’avvenire, quello di vedere del tutto ingenuamente quel che la saggezza degli altri non può scorgere”. Appunto possiamo constatare che per numerosi secoli in Europa abbastanza sorprendentemente la parola del folle o non era intesa, altrimenti se lo era veniva ascoltata come fonte di verità. Intanto in questo periodo vi vengono allestiti anche alcuni luoghi riservati esclusivamente ai soli “pazzi” con alcune suddivisioni che potremmo definire interessanti fra varie specie di malattie; infatti l'Hotel Dieu accoglieva solo alienati mentre al contrario il Bethlem Royal Hospital a Londra accoglieva solo lunatici.

L’epoca della reclusione segna una migrazione della follia verso la regione dell’insensato; la follia è chiusa nell’universo delle interdizioni di linguaggio; la reclusione classica racchiude con la follia, il libertinaggio di pensiero e di parola, la bestemmia, la stregoneria, l’alchimia ; in pratica tutto ciò che caratterizza il mondo parlato e interdetto della “non ragione”; la follia è un linguaggio escluso - quello che contro il codice della lingua pronuncia parole senza significato (vedi gli “insensati” i “dementi”) o quello che pronuncia parole sacralizzate (“violenti” o “iracondi”) o ancora se vogliamo quello che fa passare significati interdetti (i “libertini”, i “testardi”).

L’internamento emblema dell’Età Classica si configura particolarmente come punizione etica, così come nell’orizzonte etico si pone l’intera problematica della follia. Non ci si deve stupire dell’indifferenza che nel XVII secolo viene opposta alla separazione di follia e colpa, di alienazione e malvagità. Essa non deriva da un sapere insufficiente, ma da un’equivalenza decisa lucidamente: follia e delitto non si escludono, ma si implicano l’un l’altro.

Nel mondo dell’internamento la follia non spiega e non scusa niente; essa entra in complicità col male per moltiplicarlo, per renderlo più insistente e pericoloso, per prestargli nuovi volti. La follia che non intende esserlo o la semplice intenzione senza follia hanno lo stesso trattamento, forse perché hanno oscuramente la stessa origine: il male o perlomeno una volontà perversa.

E allora si arriva al ‘900, con Sigmund Freud, quando l’esperienza della follia si è spostata verso l’ultima forma di interdizione del linguaggio. Ha cessato allora di essere errore di linguaggio, bestemmia proferita, o significato intollerabile (e in questo senso la psicanalisi è veramente la grande rimozione delle interdizioni, come diceva lo stesso Freud) è apparsa come una parola che si avvolge su se stessa, dicendo, al di sotto di ciò che dice, altre cose delle quali è al tempo stesso il solo codice possibile: linguaggio esoterico, se si vuole, poiché trattiene la sua lingua all’interno di una parola che alla fin fine non dice altre cose che questa implicazione.