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venerdì 18 settembre 2009

Il discorso del folle

Oggi la parola ha un’importanza straordinaria,noi viviamo di parole. E in una società come la nostra la produzione del discorso è ovviamente controllata e selezionata;cosa succederebbe se invece fosse libera? Tornerebbero a galla tutte le inquietudini a stento represse,l’inquietudine nei confronti di ciò che il discorso è nella sua materiale realtà di cosa pronunciata; l’inquietudine di avvertire dietro a questa attività poteri e pericoli che si immaginano a stento; l’inquietudine nel sospettare ciò che potrebbe celare un uso sbagliato della parola.. guerre, lotte ,dominazioni, battaglie …
Proprio per scongiurare un pericolo del genere si attuarono procedure di controllo e di delimitazione del discorso, che oggi vengono conosciute come i tre grandi sistemi d’esclusione che colpiscono il discorso:la parola interdetta,la partizione della follia e la volontà di verità.
Nel secondo principio d’esclusione,partizione & rigetto,viene affrontato un argomento che affonda le sue radici nel medioevo e che ancora oggi viene considerato l’oggetto di studio di diverse discipline che variano dal campo scientifico al campo dei mass media: LA FOLLIA

Un uomo grida:”io sono il padrone del mondo,da questo momento in poi mi ubbidirete poiché ho potere di vita e di morte …”
Due persone ascoltano quello che dice;
<> domanda il primo
<> risponde il secondo.

Come si fa a rispondere che l’uomo che grida in realtà sia pazzo?
Immaginiamo di far continuare il dialogo fra le due persone, alla risposta “costui è pazzo”, potrebbe seguire una domanda del genere <>
<>
Troppo spesso usiamo l’aggettivo “folle” per definire una realtà a noi estranea, per comportamenti diversi dal nostro,ma cosa ci dice che in realtà non siamo noi i folli? La follia,è definita oggi come pazzia,come alienazione mentale o ancora come stato di fanatismo avanzato. L’opposizione tra ragione e follia è sempre stata oggetto di studio,di ricerche,di critica,e ancora oggi rimane un argomento affascinante & misterioso al tempo stesso;questo perché non si ha la possibilità di conoscere in modo approfondito la follia senza rimanere intrappolati in essa. La follia del folle veniva riconosciuta attraverso le sue parole,esse erano il luogo in cui si compiva la partizione,ma non erano mai accolte o ascoltate. Nella nostra società non si ha il diritto di dire tutto,bisogna tener conto delle circostanze e del contenuto del discorso,poiché attraverso questo noi non esprimiamo solo i nostri pensieri e i nostri desideri,ma lottiamo per raggiungere il potere. Questa è una verità che tendiamo spesso a dimenticare; cosa succederebbe se togliessimo potere alla parola? Ci ritroveremmo in una situazione insostenibile,saremmo discriminati e considerati una nullità,saremmo i diversi, saremmo trattati proprio come era trattato il“folle”.
In che modo il folle veniva riconosciuto,escluso dalla società e internato? Sulla base di quali criteri si decideva sulla sua follia? All’interno di quale reticolo veniva intrappolato?
Dal profondo del medioevo il folle era colui il quale non era in grado di poter pronunciare un discorso,non per incapacità,bensì per la violenza psicologica che era costretto a subire,la sua parola era infatti considerata nulla,senza nessun significato, privata di ogni importanza,la sua parola non esisteva;ma ancora più grave era che ad essa non veniva riconosciuta nessuna verità;tutto l’immenso discorso del folle non era altro che rumore. Per secoli in Europa alla parola del folle venne riconosciuto uno strano potere,quello di annunciare verità nascoste,di conoscere l’avvenire,o ancora la grande capacità di vedere del tutto ingenuamente quello che la saggezza degli altri non poteva minimamente scorgere. Vi è quindi un importante capovolgimento,il folle non era più colui da deridere e da allontanare,bensì era colui da temere poiché la sua era una parola di verità.
Ma nonostante questo,il folle,in un modo o nell’altro non era nessuno; in entrambi i casi la sua parola,o rigettata non appena proferita o investita da una segreta ragione,non esisteva.
Il momento di passaggio verso un radicale cambiamento della concezione della follia si ha tra il XVI e il XVII sec., quando nella letteratura, Cervantes e Shakespeare, mostrano l’essere umano alle prese con nuovi ordini sociali, politici, simbolici. Laddove i confini dell’ordine consensuale diventano incerti, frastagliati e cangianti, l’eccedenza non è più
facilmente identificabile e classificabile, quindi non è più ritualizzabile e dominabile. L’eccesso della passione cortese avviene in un mondo dove non c’è più il codice cortese. L’eccesso religioso avviene in un mondo dove non c’è più un ordine sacro condiviso. L’eccesso della ragione avviene in un mondo dove la ragione è slegata dall’ordine etico.
Ora un folle è chiamato a restaurare un ordine ormai dissolto: Don Chisciotte quello della cavalleria, Amleto quello della condizione umana stessa: «Il mondo è fuori squadra: che maledetta sorte esser nato per rimetterlo in sesto».
Ed è anche questo il momento in cui con l’avvento della scienza moderna si inaugura un diverso statuto della soggettività. Sarà proprio la scienza a ridurre la follia a malattia e a creare pratiche di internamento e di esclusione di tutte le forme di eccedenza. Nasce un diverso
modo di vedere la follia, una nuova “sensibilità” che la rigetta e la rinchiude. Nascono le istituzioni totali, che la escludono dalla vita quotidiana e condivisa, la riducono al silenzio, e medicalizzandola cercano di sbarazzarsi di quell’interrogativo enigmatico e inquietante, di
quella verità inudibile che la follia sembra porre sulla condizione umana. Come ha lapidariamente evidenziato Foucault: «La follia non la si può trovare allo stato selvaggio. La
follia esiste solo all’interno della società, non esiste al di fuori delle forme della sensibilità che la isolano e delle forme di repulsione che la escludono o la catturano. Così, si può dire che nel
Medioevo, poi durante il Rinascimento, la follia è presente nell’orizzonte sociale come un fatto
estetico o quotidiano; poi nel XVII sec., a partire dall’internamento, la follia attraversa un periodo di silenzio, di esclusione. Essa ha perduto quella funzione di manifestazione, di rivelazione che aveva all’epoca di Shakespeare e di Cervantes (per esempio, Lady Macbeth
comincia a dire la verità quando diventa folle), e diventa derisoria, menzognera. Infine, il XX sec . mette mano alla follia, la riduce a un fenomeno naturale, legato alla verità del mondo
[mondo nel senso di naturale-biologico e non umano]. Da questa presa di possesso positivista dovevano derivare, da una parte, la filantropia sprezzante che ogni psichiatria manifesta nei
confronti del folle, dall’altra, la grande lirica che troviamo nella poesia di Nerval fino ad Artaud, e che è uno sforzo per restituire all’esperienza della follia una profondità e un potere di rivelazione che erano stati annientati dall’internamento».
Queste parole di Foucault ci permettono di mettere in evidenza come la follia oggi sia sdoppiata in due diverse rappresentazioni: da una parte una concezione classica e letteraria; dall’altra una concezione moderna e scientifica.


Oggi pensiamo che la questione sia definitivamente chiusa,che oggi siamo troppo “avanti”per avere ancora queste idee “primitive”. Ma come si reagisce veramente ? Consideriamo la follia quasi normale?
Follia e normalità non sono due situazioni escludenti l’un l’altra,non sono due contrari perché tra le due c’è sempre possibilità di passaggio e in certi sensi la follia è contenuta nella normalità. In questo senso la psichiatria ci viene in aiuto e prova a spiegarne le strutture interne e decisamente complicate. L’io si trova in mezzo a due mondi,un mondo esterno e un mondo interiore; il mondo esterno è costituito da ciò che proviene da altro,non da se stessi,è il mondo dell’esperienza in cui ci sono le cose,in cui ci sono i pericoli. Qui vi sono inoltre gli altri verso i quali proviamo simpatie o antipatie,spesso immediate;vi sono i legami,amici o nemici. In relazione a questo mondo possiamo subire ingiustizie e sentire frustrazioni. L’insieme del mondo esterno è il teatro sociale,la società inoltre ci cataloga e pretende da noi che si faccia ciò che essa impone. Ad esso bisogna adattarsi, nel senso anche attivo che si deve calarvisi dentro. E calarsi in esso è ineludibile, anche se spesso tale mondo non è molto attraente.
Dall’altro parte c’è il mondo interiore, che è altrettanto se non più complicato di quello esterno. Qui vi sono vissuti, idee, risentimenti, sensazioni di incomprensione. Qui vi sono i sogni. Questo è il teatro interno, che è anche un mondo di paure senza oggetto. Dentro di esso ci sono i ricordi sgradevoli. E molti dati di cui non abbiamo consapevolezza, che costituiscono una presenza dell’assente. Vi sono segnali subliminali,dati che vengono associati in modo inconsapevole. Ma questo essere improntati in modo inconsapevole è esperienza presente anche nell’adulto. Questo è il mondo da cui può venire la voglia di non esistere. Il mondo interno è un mondo ignoto dentro di noi, ma anche quello esterno ci è perlopiù ignoto. E noi siamo presi tra i due mondi, fragili, posti tra desiderio e azione. Sembra quasi che il folle sia un prigioniero,prigioniero di se stesso,e sembra quasi rispecchiare un po’ tutti noi. Diceva Rousseau: “l’uomo è nato libero,e dappertutto è in catene”.

Dal 1904 al 1978 per la legislazione italiana folle è definito chi è “pericoloso a sé o ad altri e di pubblico scandalo”. Il trattamento del folle prevedeva quindi innanzitutto impedirne la pericolosità.
Ma a partire da Freud si è sviluppato anche il trattamento di cura attraverso la parola. Una parola nella comunicazione, ossia scambiata entro lo stesso codice. Se infatti i codici sono diversi, come spesso accade, non si comunica. La parola dunque all’interno del transfert che è un alone, una comunicazione affettiva, che è sistema di comunicazione totale. Ed è nella comunicazione affettiva che c’è la possibilità di capire il non-detto. In questa ci sono il gesto e lo sguardo, che sono comunicazione a tutti gli effetti, come dimostra la partecipazione silenziosa in cui consistono i rituali dei “primitivi”. Questo comunicare è un comprendere, che è diverso dallo spiegare. Un conto è infatti spiegare, un altro comprendere. Comprendere vuol dire andare-verso, prendere-con e queste forme rimandano ad una forma di abbraccio. Comprendere però ,soprattutto, implica tenere il tutto intero. Mentre la spiegazione tende a dividere. Perciò quando c’è transfert le parole generano cambiamento, si passa appunto alla parola-legame. Questa è quella complicata fase dove
“parola” è mettersi in comunicazione, è elemento di consapevolezza che ci siamo. L’ assenza di questo legame è solitudine, che nella solitudine di massa diventa “l’essere come se si fosse trasparenti.”
C'è la follia della lunga storia della psichiatria, che dal XVII sec. si è impegnata a studiare e a trattare i pazzi. La follia dei grandi quadri nosografici, dei manuali di psicopatologia, delle scuole di pensiero clinico. Abbiamo la follia nelle istituzioni totali.
E poi c'è qualcos'altro. Come un'altra follia. La follia dei grandi testi letterari e drammaturgici. La follia di Amleto, di Re Lear, di Don Chisciotte. Prima ancora la follia di Orlando. Molto dopo la pazzia del pirandelliano Enrico IV. Tra loro molto diverse, ma in
ogni caso dalla stessa parte. Dalla parte della scrittura che non cessa mai di interrogarci.
La follia presa tra due, dunque. Tra la clinica e il campo dell'arte.
Potremmo dire, la follia come la si incontra nelle istituzioni deputate alla cura e al trattamento e lo sfavillio della follia raccontata dal genio artistico.
Abbiamo quindi uno stesso oggetto ma su due registri differenti. Ora la questione è cercare di indicare a cosa risponde tale differenza.
Foucault ci dà una prima indicazione a proposito della letteratura. La follia nella letteratura ha una funzione di rivelazione, di verità. Quando i personaggi della letteratura sono folli, lo sono per dire o indicare una verità. Una verità che possono incarnare solo a partire da
quella posizione e che gli altri personaggi non possono occupare.
Eppure qualcosa non torna. La follia non ci dice soltanto una verità, ci mostra anche una sofferenza.
Quello che emerge sul versante della clinica e della pratica istituzionale non è sicuramente la follia nel suo versante artistico, filosofico, esistenziale, la follia in grado di aprire alle verità fondamentali dell’esistenza. Più spesso nella pratica clinica ci si trova di fronte a
persone che patiscono la loro condizione con effetti devastanti nel corpo e nella gestione della vita quotidiana.
Sembra allora che la letteratura e l’arte in genere abbiano a che fare con la verità che la follia riesce a mostrare, mentre la clinica abbia a che fare con le conseguenze di tale condizione. Conseguenze che si iscrivono nel reale del corpo, della sofferenza e a cui occorre dare una risposta.
La letteratura e la clinica sembrano guardare a due aspetti diversi della follia. La nostra ipotesi e che si possa tentare di avere un approccio sinottico e portare nel campo clinico la questione della verità che la letteratura e l’arte in genere esplorano, e d’altro canto tentare
di riconoscere ed approfondire la parte di sofferenza e il prezzo che il folle paga per la sua
“scelta” di libertà; un prezzo che spesso fa di quella “libertà” una prigione.

Basta poco per accorgersi che la vecchia partizione è ancora valida. L’esempio della psichiatria lo mostra esattamente. Quello che è cambiata è la rete di istituzioni;non si ha più una società del medioevo che mette sotto accusa il discorso del folle,ma una società che permette a qualcuno di ascoltare questa parola,di trattarla e di studiarla senza pietà. La partizione oggi agisce altrimenti,sotto linee diverse e anche gli effetti prodotti sono diversi.
In realtà il problema della follia, nonostante gli studi approfonditi condotti nei secoli da sapienti prima e scienziati poi, rimane ancora indefinito, un fenomeno dai contorni poco chiari, un mistero, come tutte le manifestazioni più importanti dell'esistenza umana. Forse, da questo punto di vista, conviene a tutti noi un richiamo al passato. Dare maggior spazio nelle nostre vite alla follia significa, oggi, accettare che esistano persone che la pensano diversamente da noi, che concepiscono una diversa visione del mondo; significa provare compassione per chi soffre, ma anche acquisire apertura mentale, flessibilità, capacità di entrare in contatto con gli altri e, soprattutto, con l'altro che vive dentro di noi, con i nostri aspetti ombra che fatichiamo ad accettare, perché collidono con la nostra routine e con la funzionalità dei nostri ruoli quotidiani. Significa tollerare e promuovere il dissenso. Non dimentichiamo che gli atteggiamenti più duri e autoritari nei confronti della follia sono quelli adottati nei paesi a sistema dittatoriale. Non scordiamo che nella ex Unione Sovietica venivano reclusi in manicomio tutti coloro che manifestavano il proprio dissenso verso il potere. Spesso si trattava di intellettuali di grande valore, cui venne attribuito in seguito il premio Nobel. E le diagnosi di follia erano formulate da psichiatri accreditati dalla comunità scientifica internazionale.
Come da noi Basaglia, anche Foucault in Francia, perorava la causa della chiusura dei manicomi, ben sapendo che non bastava per porre fine alle vite bruciate tra le sue mura, silenzioso olocausto consumato nel nome della scienza, per ottenere dalla società una rivisitazione dei suoi rapporti con le figure della follia e, più in generale, del disagio. A ciò si deve aggiungere che la scienza oggi si è fatta più esigente, più asettica, persino più pulita, anche se decisamente più invasiva di quanto non fosse l' istituzione manicomiale. Oggi a essere minacciata è la società come istituzione totale, dove troppi individui, nel tentativo di gestire al meglio i propri umori, preferiscono, alla relazione sociale, il ricorso quotidiano alle pillole, fino a trasformarsi in robot chimici sempre all' altezza delle loro prestazioni nel cupo silenzio delle loro anime.
Siamo bravi a puntare il dito e dire “sei un folle”;forse siamo meno bravi ad aprire la nostra mente e provare a comprendere .. è ovvio che la follia ci faccia paura,perché non la conosciamo,ma non per questo abbiamo il diritto di discriminare le persone e di porre fine alla loro vita. Impariamo dal passato,non commettiamo più gli stessi errori,perché se prima lo facevamo in nome della scienza..oggi per cosa lo facciamo? In nome della paura?
C’è un po’ di follia in ognuno di noi,ed è inutile tentare di negarlo,di reprimere questo aspetto..la paura è quella di poter essere trattati come era trattato LUI? Il folle? Dobbiamo cambiare le cose,perché ogni parola ha la sua importanza,ha la sua verità,perché oggi è inconcepibile poter pensare che il discorso sia solo un rumore.. Cambiando questo potremmo cambiare la condizione di tutti.. Perché il discorso non è semplicemente ciò che manifesta il desiderio,non è solo ciò che traduce le lotte o i sistemi di dominazione,ma è ciò per cui,attraverso cui si lotta ,è il potere di cui si cerca di impadronirsi.

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