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sabato 12 settembre 2009


GIU’ LA MASCHERA: il folle nella trappola sociale

SAPERE è POTERE” sosteneva Bacone.
È indubbio che fra conoscenza e potere il nesso sia profondo e strettissimo: l’analisi dal basso, già effettuata da Nietzsche, mostra che non c’è verità che non sia coinvolta in un rapporto di forza; che sapere e scienza sono non solo strumento ed effetto, ma esse stesse forme di dominio, microsistemi di potere. Sapere e potere si condizionano reciprocamente e l’uomo è “intrappolato” all’interno di questo circolo: è, dice Foucault, oggetto prodotto ed inquadrato in un’episteme. L’uomo si illude, quindi, quando si ritiene soggetto sovrano dei propri atti cognitivi e linguistici, padrone assoluto di sé, signore della storia di cui crede di conoscere il senso e il fine.
A partire dalla riflessione nietzschiana e dallo strutturalismo, Foucault matura una concezione antistoricistica e antiumanistica, che nega la costituzione autonoma del soggetto. Quella di uomo come soggetto trascendentale, essere razionale fondato e fondante (cioè criterio di giudizio dell’esperienza, del sapere, della verità) è un’idea di recente invenzione, è un prodotto dell’Illuminismo e del pensiero, tra gli altri, di Kant. Quel soggetto è in realtà un oggetto; quel soggetto è, quindi, morto: l’uomo deve riconoscersi qual è, non più autonomo, artefice del suo destino, né caposaldo della conoscenza.
Il soggetto, ritenuto fondamento sicuro, è invece da sempre penetrato da relazioni di potere che lo fanno essere quello che è, che lo plasmano nei pensieri e nei comportamenti, nei desideri, nel corpo, nei bisogni; quel soggetto è prodotto dai saperi che con esso nascono e dalle pratiche disciplinari che gli fissano un’identità.
Il processo di soggettivazione, caratteristico dell’epoca moderna, è visto da Foucault come estensione, come tecnica principale di questo meccanismo di potere; potere che “è rivolto all’immediata vita quotidiana che categorizza l’individuo, lo segna della sua individualità, lo fissa alla sua identità, gli impone una legge di verità che egli deve riconoscere e che altri devono riconoscere in lui”.
Rendere le persone soggetti, legandole ad una identità precisa, affidando loro un ruolo (o, come sostiene Pirandello, una maschera) individuale e sociale, è dunque un modo per assoggettarle ad un regime di governabilità; il soggetto è una forma di potere che soggioga, che crea il miraggio e la necessità di una coscienza–conoscenza di sé per legare l’individuo alla propria identità.
La ricerca di Foucault si concentra sui modi attraverso i quali gli esseri umani vengono resi soggetti: oltre al ruolo fondamentale delle scienze che parlano dell’uomo (sono proprio le nuove forme del sapere, come la linguistica, la psicoanalisi, l’etologia ad aver decentrato l’uomo e ad avere portato alla luce le leggi inconsce che presiedono al costituirsi del linguaggio, dei suoi desideri, delle sue azioni), si rivelano determinanti quelle che Foucault chiama “pratiche di divisione”, che creano il soggetto attraverso l’atto di separarlo da una serie di “altri”.
Implicata con la nascita della soggettività è, ad esempio, l’istituzione della follia: il potere-discorso ha bisogno della figura del folle come antagonista cui contrapporre il potere della razionalità nascente (razionalità come normalità, follia come a-normalità).
Se nelle epoche precedenti la pazzia era considerata come qualcosa di misterioso ma anche di prodigioso e talvolta sacro (ai folli era permessa la vita di comunità), con la nascita dell’era moderna essi vengono medicalizzati, la follia diventa malattia da curare, deviazione dalla norma da recuperare.
Le parole del folle erano (e sono?) la manifestazione della sua follia, il luogo in cui si compiva la partizione tra la sensatezza e l’insensatezza. Anche oggi, per Foucault, esistono meccanismi di partizione, che però sono azionati in virtù di nuove istituzioni, con nuovi effetti. Il folle si ascolta e si decifra tramite una rete di psicologi, psicoanalisti, medici (‘armatura del sapere’).
E’ curioso constatare come per secoli in Europa la parola del folle o non era intesa, oppure, se lo era, veniva ascoltata come una parola di verità” (Foucault, “L’ordine del discorso”).
I medievali non si sono presi la briga di conoscere il folle: “la follia non merita l’attenzione del saggio”, recita un proverbio storico. Solo alla fine del Medioevo, quando invade immagini, teatri e testi, da Bosch a Bruegel, a Erasmo, il folle diviene non semplicemente oggetto di attenzione ma figura possibile del saggio. Anche Foucault fa riferimento a tale contesto: “Alla fine del Medioevo, la lebbra sparì dal mondo occidentale…”, e la follia la rimpiazzerà, suscitando le stesse reazioni d’esclusione. L’aspetto implicito del discorso di Foucault è molto significativo: la follia nel Medioevo dormiva come in attesa di essere svegliata alla fine del XV secolo e soprattutto nel XVI secolo.
È proprio in questo contesto storico che Erasmo da Rotterdam oserà l’espressione “lucida follia” sostenendo che «Le decisioni più sagge, le decisioni più giuste, la vera saggezza, non è quella che scaturisce dal ragionamento, non è quella che scaturisce dalla mente, ma è quella che scaturisce da una lungimirante, visionaria follia».
Che il folle sia l’unico saggio in grado di liberarsi dalle catene di questo meschino meccanismo sociale di potere e rivelare verità scomode? Se è vero che oggi si è superata la concezione della Grecia del VI secolo (in cui il discorso era vero solo se pronunciato dall’autorità legittimata) e la veridicità di un discorso è definita in relazione al contenuto e non più al vettore, non si può escludere questa ipotesi.
Se ammettiamo, dunque, questa “pazzia filosofica”, dobbiamo ammettere anche che il folle ci invita a tralasciare l’involucro superficiale del compromesso civile per penetrare nell’anima rovente della realtà, spogliati da retaggi e apparenze (dolorosamente forse) in “belli e sciolti atteggiamenti”, alla ricerca, aldilà di ogni schieramento politico, religioso o sociale, della propria autenticità, nell’apertura solidale all’altro, al diverso.

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