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domenica 6 dicembre 2009

Uno sguardo verso la "follia"

"L’Ordine del discorso" è il testo con cui Michel Foucault tenne la lezione inaugurale al Collège de France, (2 dicembre 1970) in cui affrontò i prediletti temi delle “procedure d’esclusione” che colpiscono il discorso. Nei testi "Storia della follia nell’età classica"(1961) e "Nascita della clinica"(1963), Foucault attraverso approfondite ricerche d’archivio ricostruisce il sistema della follia aprendo una nuova concezione del rapporto tra “ragione-sragione” e tratta della progressiva emarginazione della malattia mentale e del finale assoggettamento dei “folli ” agli uomini di ragione.

“In una società come la nostra si conoscono, naturalmente, le procedure d’esclusione”. Dei tre grandi sistemi d’esclusione che colpiscono il discorso, ovvero, la parola interdetta, la partizione della follia, e la volontà di verità io tratterò quello della follia: la cosiddetta “partage”-partizione tra ragione e follia.
Il termine follia deriva dal latino follis, espressione di origine onomatopeica che significa letteralmente “mantice”, “sacco di cuoio” o “pallone” e indica, per via metaforica, una persona dalla testa vuota. Con il termine follia si definisce in primo luogo la condizione di chi è affetto da una grave malattia mentale, o da una momentanea perdita della ragione. Per estensione, il termine indica ogni forma di stoltezza, mancanza di senno e l’incapacità di giudicare bene. La follia viene attribuita anche ad ogni comportamento che derivi da un forte turbamento prodotto dai sensi, come è il caso di una esasperata, vibrante passione d’amore, o di un desiderio senza freni (amare fino alla follia).

Folle è colui che vive ai margini, non inquadrabile nella schiera e nella categoria in cui le abitudini sociali e la forza del senso comune classificano la vita di ciascuno; nella sua realtà dolorosa e lacerante; costretto persino a soffocare i suoi sentimenti d’amore.

Anche nella canzone “Ti regalerò una rosa” il cantante Simone Cristicchi analizza il tema dei folli e scrive:


***************
Ti regalerò una rosa
Una rosa rossa per dipingere ogni cosa
Una rosa per ogni tua lacrima da consolare
E una rosa per poterti amare…
…Mi chiamo Antonio e sono matto
Sono nato nel ’54 e vivo qui da quando ero bambino
Credevo di parlare col demonio
Così mi hanno chiuso quarant’ anni dentro a un manicomio
Ti scrivo questa lettera perché non so parlare …
…Io sono come un pianoforte con un tasto rotto
L’accordo dissonante di un’orchestra di ubriachi
E giorno e notte si assomigliano
Nella poca luce che trafigge i vetri opachi
Me la faccio ancora sotto perché ho paura
Per la società dei sani siamo sempre stati spazzatura
Puzza di piscio e segatura
Questa è malattia mentale e non esiste cura….
….I matti sono punti di domanda senza frase
Migliaia di astronavi che non tornano alla base
Sono dei pupazzi stesi ad asciugare al sole
I matti sono apostoli di un Dio che non li vuole
Mi fabbrico la neve col polistirolo
La mia patologia è che son rimasto solo
Ora prendete un telescopio… misurate le distanze
E guardate tra me e voi… chi è più pericoloso? …
Non come le cartelle cliniche stipate negli archivi
Dei miei ricordi sarai l’ultimo a sfumare…
****************

Analizzando le parole, comprendiamo come il cantante voglia delineare il ruolo che ha il matto nella nostra società e come appare agli occhi degli altri, e come voglia dimostrarci ancora una volta che solo i folli hanno capito il vero significato del sostantivo maschile “Amore”.
Per secoli la parola del folle o non era capita e accolta o era considerata come fonte di verità, talvolta ignorata e fatta cadere nel silenzio; mentre per egli questa può dirci qualcosa di profondo sulla verità dell’uomo, può mostrarsi come una “prodigiosa riserva di senso”.
Foucault attraverso le sue ricerche ha cercato di capire in che modo i folli erano riconosciuti, scartati ed esclusi dalla società proprio perché la follia rappresentava e rappresenta tutt'oggi nella società una modalità di separazione tra gli individui che sorge da un atteggiamento culturale di base; ha operato nel liberare il folle da una identificazione data dal senso comune; e la medicina e le istituzioni intervengono in un secondo momento per giustificare e spiegare gli effetti di questa opposizione. Foucault ha approfondito ed analizzato i metodi e le istituzioni che classificano il folle come tale, approfondendo le specifiche istituzioni delegate al contenimento della follia che rappresentano l’insorgere di una nuova forma di confine della sragione (deraison) ossia i manicomi. Oggi tale “parola” ci mette in agguato e il ruolo del medico presta orecchio alla parola del folle mantenendo una cesura.

Il folle sin dalle diverse epoche ha avuto varie attribuzioni; gli antichi greci consideravano due accezioni del concetto di folle: nella prima accezione era una forma di pazzia dovuta all’umana debolezza; nella seconda era considerata di origine divina e consisteva in un entusiasmo o furore ispirato; spesso nella letteratura classica greca la follia era determinata dalle divinità, per possessione estatica o come punizione per delitti o colpe; nel Medioevo la sua figura era vista nelle molteplici controfigure carnevalesche e popolari eleggendola a testimone di una verità nascosta ed inaccettabile e la follia era interpretata come il frutto di una possessione di origine magica, astrologica, amorosa o demoniaca. L’Umanesimo guardava il folle attraverso uno sguardo eccentrico e rilevatore cui rivolgersi in cerca di un senso delle cose. Lo studio della malattia mentale dell’uomo ha raggiunto il suo massimo splendore nel Novecento e la psichiatria degli ultimi secoli attribuisce la follia ad una macchina non più efficiente, non più integrata nel suo ambiente, non più in grado di dar vita a valori sociali ed economici.
Oggi la situazione degli istituti dove vivono codeste persone è cambiata e il cantante Cristicchi descrive la sua esperienza attraverso i centri che ha visitato e contrappone la situazione del vecchio manicomio agli attuali centri dicendo che queste strutture nella vita dei malati:
«Sono importanti soprattutto perché essi sono accolti, hanno la possibilità di socializzare e di intraprendere percorsi di normalità. Nei casi che ho visto, per esempio, le persone hanno una loro stanza dove possono mettere i propri oggetti personali: sembrerà banale, ma anche questo è un modo per recuperare una propria dignità e identità, se confrontata alla spersonalizzazione di cui erano vittime nei vecchi manicomi. Così come la possibilità che si dà loro, attraverso attività terapeutiche e riabilitative, di trovare mezzi per comunicare la propria esperienza e ricucire un rapporto interrotto con il mondo. Visitando diversi centri mi sono reso conto quanto l’arte possa essere utile. Dipingere o scolpire consente loro di dare forma in maniera pura, naturale, a uno stato d’animo che stanno vivendo in quel momento». Cè un altro aspetto dell’arte che Cristicchi ha voluto mettere in luce: la contiguità tra la sensibilità artistica e quella di chi è affetto da disturbi mentali, che emerge lampante dall’incontro avuto con Alda Merini, una delle maggiori poetesse italiane contemporanee, recentemente scomparsa, che ha passato lunghi periodi della sua vita in manicomio.
«Avevo letto le sue opere e nutrivo un timore reverenziale nei suoi confronti. E’ una persona che ha un grandissimo carisma e, allo stesso tempo, possiede una grande cultura. Quando parla ti dà delle grosse emozioni. Certo che ascoltandola ti accorgi che possiede una sensibilità che noi “normali” non conosceremo mai! E soprattutto ascoltandola capisci che non è pazza». Infine l’altra faccia dei centri psichiatrici, l’esperienza di coloro che là dentro ci lavorano, «persone che per poter fronteggiare situazioni emotivamente così complesse hanno dovuto metter su una specie di corazza. Ma, nonostante ciò, tutte accomunate da una straordinaria passione per quello che fanno».

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