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domenica 19 luglio 2009

Foucault analizza un dittatore.

Michel Foucault ha scoperto, o semplicemente riscoperto, una delle armi imbattibili usate da uno dei più sanguinosi dittatori della storia: A.H. (e non è Alfred Hitchcock). L'arma imbattibile: il discorso.
Con la sua lezione inaugurale pronunciata al College de France, nel 1970, si è riusciti a ricollegare (solo io forse), non poi così a stento, alcuni caratteri della strategia dialettica del Sig. Dittatore.

Spiegando le procedure di esclusione attuabili in un discorso, Foucault, introduce la prima: l'interdetto.
"Non si ha il diritto di dir tutto, non si può parlare di tutto in qualsiasi circostanza, chiunque non può parlare di qualunque cosa."
Ci fu, però, un uomo nella storia, che, essendosi eletto come "soggetto parlante" per antonomasia, provò ad abbozzare discorsi contenenti villeggiature tabù, rituali popolari, elogi razziali e risiko mondiali.
Il discorso, ai tempi in cui non lo si poteva leggere su un sito internet, ascoltare in tv o in radio, o scrivere liberamente e direttamente per mano propria, fu un'arma potentissima. Furono tempi in cui l'ignoranza popolare, mai cessata di esistere, la poca alfabetizzazione, la scarsa possibilità di esprimere le proprie idee con valide ragioni, la voglia inesistente di cambiare, migliorare, uscire dalla massa, portò il popolo ad erigere come unico conoscitore e tedoforo della verità, un esaltato. La decadenza spinta fino all'estremo. La vuotezza.
Il discorso pronunciato da un qualsiasi essere che celava dietro la sua imponente sicurezza una forte carenza di autostima, assunse così, per quel popolo vuoto e a bocca aperta, la grandezza imperiale di ragioni giuste. Le parole divennero proiettili sparati sulla folla. Proiettili imbevuti nel veleno della segretezza e del sangue. Grazie al discorso, masse di cervelli vennero manipolate secondo la sua volontà.
E quasi non importò cosa veramente volessero dire quelle parole, il popolo fu stordito dal discorso, dalla sua magnificienza, da quell'agglomerato di vocaboli giustapposti tra loro, così forti da far tuonare una nazione intera, un mondo intero.
Grazie alla bomba intelligente chiamata discorso, furono sprigionati potenti desideri e desideri di potere.
"Il discorso non è semplicemente ciò che traduce le lotte o i sistemi di dominazione, ma ciò per cui, attraverso cui, si lotta, il potere di cui si cerca di impadronirsi".
Così, con l'aiuto di Discorsi mirati, parole usate al momento giusto, scaltramente non pronunciate, riuscì a riunire folle innumerevoli di persone che vedevano in lui la figura del Salvatore. E nelle elezioni del 1933, il 56,1% degli elettori, bestemmiò contro colui che avrebbe portato lo stato tedesco "nell'abbisso" e avrebbe provocato "una catastrofe inimmaginabile" (Ludendorff).
Nonostante ciò, seppe andare avanti continuando a mirare ai suoi obiettivi.
Un popolo intero insieme ad altri stati alleati, acclamò le sue parole vedendo in esse la verità assoluta e la giusta via per un posto in Paradiso.

A.H., con i suoi infallibili Discorsi, riuscì a mobilitare un popolo intero per soddisfare i suoi bisogni di megalomania e follia.
Un folle.
Nell'antico Medioevo, la figura del folle era vista come colei il cui discorso non poteva circolare facilmente e liberamente come quello degli altri. La sua parola poteva essere considerata niente e vuota, oppure, come tragicamente avvenne in un periodo buio della storia, pregna di significati e verità nascoste.
La parola del folle "o cadeva nel nulla [...] oppure vi si decifrava una ragione più ragionevole di quella della gente ragionavole". Per quello che racconta la storia, però, fu, piuttosto, una ragione molto più (S)ragionevole di quella della gente sragionevole.
"La follia del folle si riconosceva attraverso le sue parole"
Il più grande sbaglio che l'umanità fece fu quello di non ascoltare bene quelle parole, quei Discorsi.
"Se occore veramente il silenzio della ragione per guarire i mostri, basta che il silenzio sia in allarme, ed ecco la partizione mantenuta".
La partizione, l'altro sistema di esclusione teorizzato da Foucault.
La nostra ragione, il nostro allarme, non scattò in tempo, per far sì che scempi disumani venissero attualizzati.
Si ebbe così una sconfitta da parte della ragione nella guerra contro la parola pronunciata, il discorso tenuto.
Foucault, nella sua lezione, si è chiesto dove fosse il pericolo nel fatto che la gente parlasse.
Potrebbe celarsi, quel pericolo, nelle reazioni provocate dai discorsi della gente?

i pazzi sono fuori!


Foucault e Basaglia furono due intellettuali le cui vite erano destinate a scorrere parallele, ignare l'una dell'altra. Invece, complice la congiuntura storica degli anni ‘60-‘70, queste vite non hanno smesso di convergere. Due vite che continuano a intrecciarsi nella complessa rete dei loro effetti critici e pratici.

Michel Foucault (1926-1984), uno dei maggiori filosofi francesi e maggiori politici del secolo scorso. La sua riflessione, ancora oggi, esercita un’enorme influenza nel dibattito filosofico e politico.
“L'ordine del discorso” è il testo della lezione inaugurale di Michel Foucault presentato al Collège de France. Spesso si tende a presentare l’opera di Foucault, in se estremamente variegata e articolata, come un complesso coerente e strutturato di riflessione teorica. In realtà quella di Foucault è una ricerca che attraversa molte e diverse fasi, nelle quali il filosofo francese spesso mette in discussione i suoi approcci, i suoi assunti, le sue stesse tesi.
Sono molti gli spostamenti teorici che ne caratterizzano l’opera; di particolare rilievo è lo studio della follia e dei sistemi in Europa: la parola del folle o non era intesa oppure, se lo era, veniva ascoltata come una parola di verità. Il folle, fin dal profondo Medioevo, è colui il cui discorso non può circolare come quello degli altri: capita che le sue parole siano prive di senso logico e capita anche che le si attribuiscano strani poteri, quello di dire una verità nascosta o quello di annunciare l’avvenire. In ogni modo la follia della persona si riconosceva attraverso le sue parole, le quali non venivano mai ascoltate.
Foucault analizza il meccanismo manicomiale come un “campo di battaglia” nel quale, attraverso una serie di manovre e di tattiche, si cerca di assoggettare la follia annullando la forza del delirio attraverso la somministrazione intensiva di un principio di “realtà”. Non solo, per Foucault il fenomeno isterico è una forma di controcondotta che si pone come la sola possibilità di resistenza nei manicomi ottocenteschi, l'unico modo per sfuggire al destino della demenza.

Franco Basaglia (1924-1980), psichiatra veneziano, nel 1961 scopre la durezza della realtà manicomiale e diventa il capofila del movimento di lotta contro gli ospedali psichiatrici, sfociato nella legge 180 di riforma psichiatrica.
L'originalità di Basaglia è di aver investito sulla forza della follia piuttosto che neutralizzarla attraverso vecchi e nuovi stratagemmi. Questo approccio rese possibile un'inedita alleanza tra i tecnici e le voci radicali degli internati che cercavano di uscire dall'inferno ponendo il problema politico del modo in cui venivano governati, e a quale prezzo, nelle nostre società.
In tal senso, l'operazione di Basaglia fu una contromanovra esemplare rispetto non solo alla logica manicomiale, ma più in generale alla storia della gestione medico-politica della follia, dall’alienismo alla comunità terapeutica.
A lui si deve l'introduzione in Italia dal suo nome chiamata anche Legge Basaglia, che introdusse un’importante revisione sui manicomi e promosse notevoli trasformazioni nei trattamenti psichiatrici sul territorio. In base alla legge Basaglia, i pazienti devono essere trattati come uomini, persone in crisi. Questo fu l'inizio di una riflessione sociopolitica sulla trasformazione dell'ospedale psichiatrico e di ulteriori esperienze di rinnovamento nel trattamento della follia.
Si eliminano tutti i tipi di contenzione fisica e le terapie elettroconvulsivanti (elettroshock), vengono aperti i cancelli dei reparti. Non più solo terapie farmacologiche, ma anche rapporti umani rinnovati con il personale.
Basaglia istituisce subito, all'interno dell'ospedale psichiatrico, laboratori di pittura e di teatro. Nasce anche una cooperativa di lavoro per i pazienti, che così cominciano a svolgere lavori riconosciuti e retribuiti. Ma ormai sente il bisogno di andare oltre la trasformazione della vita all'interno dell'ospedale psichiatrico: il manicomio per lui va chiuso ed al suo posto va costruita una rete di servizi esterni, per provvedere all'assistenza delle persone affette da disturbi mentali. La psichiatria, che non ha compreso i sintomi della malattia mentale, deve cessare di giocare un ruolo nel processo di esclusione del "malato mentale", voluto da un sistema ideologico convinto di poter negare e annullare le proprie contraddizioni allontanandole da sé ed emarginandole.

Entrambi rifiutano sia il modello rivoluzionario che quello riformista, vedendovi due modi diversi di escludere e mettere sotto tutela le lotte concrete della gente. Questo rifiuto non coincide però con una diminuzione dell'impegno politico a favore di un atteggiamento più concreto.
Sovrapponendo i percorsi di Foucault e Basaglia, ciò che emerge con chiarezza è la figura di un’epoca nella quale la trasformazione fu anche un’avventura individuale.
Non si può, dunque, trasformare il mondo senza trasformare se stessi, senza esporsi al rischio di diventare altri da ciò che si è: su questo punto le esperienze di Foucault e di Basaglia coincidono profondamente.

"Per poter veramente affrontare la "malattia", dovremmo poterla incontrare fuori dalle istituzioni, intendendo con ciò non soltanto fuori dall'istituzione psichiatrica, ma fuori da ogni altra istituzione la cui funzione è quella di definire, unificare e fissare in ruoli irrigiditi, coloro che vi appartengono. Ma esiste veramente un fuori sul quale e dal quale si possa agire prima che le istituzioni ci distruggano?" (Franco Basaglia).
Giovanna Scalise

sabato 18 luglio 2009

FRANCESCA DA RIMINI E PIA DEI TOLOMEI ACCOMUNATE DALL'INTERDETTO

“Siede la terra dove nata fui
su la marina dove il Po discende
per aver pace co’ seguaci sui.
Amor,ch’al cor gentile ratto s’apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense”.[…]
[…] “Nessun maggior dolore
Che ricordarsi del tempo felice
Ne la miseria; e ciò sa ‘l tuo dottore.
Ma s’a conoscer la prima radice
Del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.
Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fiate li occhi ci sospinse
Quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disiato riso
Esser basciato da cotanto amante,
questi,che mai da me non fia diviso,
la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante”.
(V canto dell’ Inferno)

Francesca è protagonista dei vv. 97-138 dell’Inferno.
Poche sono le notizie pervenute su di lei.
Sappiamo che era nata intorno alla metà del XIII secolo, che era figlia di Guido da Polenta, che andò in sposa a Gianciotto, signore di Rimini. Il matrimonio aveva un significato politico perché sanciva la pace tra due famiglie che erano state a lungo avversarie.
Francesca, secondo quanto riferisce, sarebbe stata ingannata all’atto del matrimonio, avrebbe cioè creduto di sposare Paolo, che invece in quell’occasione rappresentava per
procura il fratello.
Le parole di Francesca riflettono fin dall’inizio l’eleganza di una società aristocratica.
La narrazione della vicenda è scandita su tre fatti essenziali: il
luogo di nascita, la passione per Paolo e la morte atroce. È come se la vita
intera del personaggio trovasse il proprio senso compiuto tra i due estremi della nascita e della morte, nell’esperienza amorosa.

Passiamo ora alla seconda cantica: canto V Purgatorio versi 130-136, i morti violentemente.

[…]"Ricorditi di me, che son la Pia;
Siena mi fé, disfecemi Maremma:
salsi colui che 'nnanellata pria
disposando m'avea con la sua gemma". »
(V canto del Purgatorio)

Pia de’ Tolomei è una nobile senese andata sposa a un signorotto
guelfo del castello maremmano della Pietra, Nello dei Pannocchieschi che
l’avrebbe fatta uccidere defenestrandola per gelosia o per risposarsi
forse con Margherita degli Aldobrandeschi. Secondo la ricostruzione più
recente Nello sarebbe partito per la guerra e durante la sua assenza
quello che lui credeva il suo migliore amico, Ghino, corteggiò Pia senza
ottenerne i favori. Meschino e vendicativo, Ghino andò a riferire a Nello
che Pia lo tradiva. Distrutto dalla gelosia, Nello credette all’amico e
richiuse Pia in un castello in Maremma dove la donna si sarebbe ammalata
di malaria.
La donna riassume in una terzina la sua tragica sorte: i luoghi della vita e della morte

Il punto che accomuna Francesca a Pia è il fatto che :
  • A Francesca non è stata data l’opportunità di giustificare l’atto che fece perdere la vita a lei e a Paolo;
  • A Pia non è stata data una spiegazione plausibile, è stata uccisa con crudeltà dal marito.

Ci si chiede se queste cose non siano state dette per mancanza di volontà o perché non si è avuta l’occasione?

Una risposta ci è data dal filosofo francese Michel Foucault ne << L’ordine del discorso>> (testo della lezione inaugurale al Collège de France letta il 2 dicembre 1970) che vuole capire quali sono sugli altri gli effetti dei discorsi pronunciati. E si interroga sulle inquietudini delle parole pronunciate e scritte di un discorso eseguito in quel momento.
Introduce anche le procedure d’esclusione composta da tre grandi sistemi:l’interdetto, la partizione e la volontà di verità.

La più evidente è quella dell’interdetto.
Secondo la procedura dell’interdetto non si ha il diritto di dir tutto, non si può parlare di tutto in qualsiasi circostanza, che chiunque non può parlare di qualunque cosa. Il dire è un diritto privilegiato o esclusivo del soggetto che parla.

Esiste un altro principio d’esclusione: una partizione ed un rigetto.
Nel Medievo la parola del folle era valutata come nulla perché la follia era riconosciuta proprio attraverso le sue parole. Ma un medico si interessò delle parole del folle e soprattutto del modo in cui era detto e il motivo per cui era detto e da qui in poi il folle non deve più trattenersi, ma viene ascoltato.
Si ha l’ascolto di un discorso che è investito dal desiderio di essere pronunciato,carico di angoscia e di “terribili poteri”.

Dante è affascinato dal discorso di Francesca in quanto si rende conto che viene pronunciato per la prima volta e che è l’unico modo che ha Francesca per riscattarsi dell’assassinio che “ ‘l modo ancor m’offende”
Francesca da Rimini è stata privata del diritto di dir tutto. Francesca non è riuscita a salvarsi e maledice il suo assassino. Parlando trova la possibilità di riscattarsi e di far conoscere la sua vera storia alle generazioni anche se, ormai, non ha nient’altro da sperare, se non pregare affinché colui che le tolse la vita finisca nella Caina.

Pia dei Tolomei in una terzina racconta tutta la sua storia. Lei, a differenza di Francesca, è stata privata del diritto di sapere. Lei non sa quale è stato il vero motivo della sua morte.

Se avessero avuto una il diritto di parola e all’altra sarebbe stata data una spiegazione fattibile cosa sarebbe successo? Sarebbero finite tragicamente le due storie?

Fate l'amore con il lettore: la poesia come caso particolare di testo; riflessioni su "Il piacere del testo" di Roland Barthes

Sembra molto infantile e semplicistico rapportare tutto al sesso o ai suoi piaceri; io personalmente me ne vergogno tutte le volte che mi capita. Roland Barthes di certo non si è fatto di questi scrupoli, parlando di “piacere del testo”, “godimento del testo” e richiamando spesso la sfera sessuale riferendosi ad un argomento che sembra averci poco a che fare: il già fin troppo citato testo.
Il paragone però possiede un fondamento evidente: leggere un testo può essere un’esperienza molto piacevole o al contrario molto noiosa; alcune letture sono estremamente interessanti indipendentemente dall’argomento che trattano, saggistica o narrativa. In alcuni casi il trasporto con cui esso ci avvince può essere così estremamente forte e vivace da isolarci dal resto e farci provare gradevoli sensazioni.
I giocatori di questa partita sono due, scrittore e lettore. Paradossalmente, hanno entrambi lo stesso scopo: il piacere del lettore. Che questo sia lo scopo di chi legge è evidente, ma è altrettanto evidente, se ci si pensa, che questo sia allo stesso tempo lo scopo di chi scrive: il suo lavoro, la sua opera è diretta al lettore, e di conseguenza essa avrà successo se soddisfa “l’utente”.
Il lettore è, per Barthes, una specie di strano animale, un essere quasi di finzione che se esistesse veramente sarebbe ciò che la società ripudia: nella sua finta esistenza, il lettore abolisce barriere, classi e divisioni; questo è il lettore quando si “prende il suo piacere”.
Dall’altra parte c’è chi scrive, lo scrittore. La vita dello scrittore è molto diversa da quella del lettore. Se quando il lettore legge prendendosi il suo piacere ha raggiunto il suo scopo, questo non vale per lo scrittore: scrivere nel proprio piacere non garantisce a chi scrive di raggiungere lo scopo, cioè il godimento del lettore.
Si potrebbe quasi dire che la ragione di vita dello scrittore è far piacere al lettore; questo da vita al continuo paragone sessuale: il testo dello scrittore deve desiderare il lettore, e la prova di questo desiderio è la stessa scrittura del testo, “è il suo kamasutra”.
Troviamo però una piccola ma significativa differenza che riguarda un caso particolare di testo, la poesia. In questo trattato ci concentreremo soprattutto ad esaminare come i principi che Barthes formula per il caso generale (il testo in genere) si possano applicare in modo specifico al caso particolare (il testo poetico). Se appagare il lettore è l’obiettivo principale di un’opera narrativa o saggistica, il componimento poetico può avere una funzione diversa. La poesia ha la possibilità di essere spiccatamente introspettiva, e di conseguenza può nascere per soddisfare il solo scrittore: la poesia può essere valvola di sfogo, momento di distensione. Questi sentimenti possono trasparire nel componimento ed arrivare così anche al lettore, che può addirittura immedesimarsi in tali sensazioni, ma quest’ultimo non gode; lo scopo di questo tipo di poesia è a tutto vantaggio dello scrittore, che, onestamente, lascia in disparte il lettore. Per dirlo come lo farebbe Barthes, la poesia può diventare “autoerotismo”.
Riprendiamo da Barthes: “Il piacere della lettura deriva evidentemente da certe rotture, codici antipatici che entrano in contatto (per esempio il nobile e il volgare)”. Queste rotture tracciano ovviamente due bordi, uno molto prudente e conforme (potremmo dire canonico e istituzionale) e l’altro che è il suo esatto opposto, mobile, vuoto, quasi trasgressivo e sovversivo, laddove si intravede la morte del linguaggio. Lo stesso Barthes dichiara che quello che attrae di più è il bordo violento, ma che sono entrambi necessari, perché è il compromesso fra i due bordi ad essere necessario. Barthes riprende il suo paragone sessuale facendoci notare che, in effetti, ciò che è maggiormente erotico è l’intermittenza, lì dove gli abiti si dischiudono lasciando intravedere e non vedere: oggi si parlerebbe del “vedo-non vedo”.
La poesia in linea di massima risponde anch’essa a questi parametri: si pensi ad esempio a “Il temporale” di Giovanni Pascoli. Questo componimento rientra, a mio parere, nel pieno della frattura creando il compromesso: la scena è effettivamente descritta (si “sente” il tuono e si “vede” il paesaggio), ma tratteggiata, non perfettamente delineata. Il tuono e il paesaggio potrebbero essere esposti molto più dettagliatamente per quel che riguarda il frastuono del primo o le sensazioni che suscita la visione del secondo, ma vengono accennati, come un pittore che delinea il quadro disegnando sulla tela le linee essenziali:

Un bubbolio lontano...
Rosseggia l'orizzonte,
come affocato, a mare;
nero di pece, a monte,
stracci di nubi chiare,
tra il nero un casolare,
un'ala di gabbiano.


Ma la poesia può spingersi arditamente verso uno dei due bordi, forse in maniera più marcata di altri testi. Alcune poesie premono a descrivere minuziosamente ambienti, circostanze e sensazioni, altre non descrivono niente ma fanno intuire una gran vastità di elementi. Per il primo caso potremmo portare ad esempio “La pioggia nel pineto” di Gabriele D’Annunzio. Per riprendere il nostro paragone pittorico, potremmo dire che questa poesia è come un quadro di Caravaggio, in cui tutti gli elementi sono molto ben delineati ed evidenti. D’Annunzio infatti ci descrive interamente l’ambiente, arrivando a soffermarsi addirittura sul rumore delle gocce di pioggia che cadono sulle foglie:

Odi? La pioggia cade
su la solitaria
verdura
con un crepitio che dura
e varia nell'aria secondo le fronde
più rade, men rade.

E il pino
ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancora, stromenti
diversi
sotto innumerevoli dita.


Del secondo caso, del bordo che ci porta quasi alla morte del linguaggio, si potrebbe parlare della grande maggioranza della produzione ermetica (che per definizione riduce al minimo il linguaggio). Prendiamo “Ed è subito sera” di Salvatore Quasimodo:

Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.

E’ chiaro (potremmo dire persino scontato) che questa poesia presa alla lettera non descrive assolutamente niente: nessuno sta al centro della terra, e i raggi del sole non trafiggono. Idee e sensazioni sono solo intuibili in questo componimento: percepiamo solitudine e scoraggiamento, ma esse non ci vengono riferite. Riportandolo su tela questo esempio, potremmo parlare di astrattismo: a mostrarci “La persistenza della memoria” nell’omonimo quadro di Dalì non c’è niente di direttamente collegabile; l’ambiente non è definito (non c’è ad esempio netta divisione tra mare e cielo all’orizzonte), e questo potere della memoria ci viene mostrato indirettamente, attraverso orologi che disciolgono ad indicare che il tempo si inchina ad essa.
Continuando, Barthes ci mette davanti un errore, una “marachella” che facciamo tutti: saltare parti del testo, quelle che reputiamo meno importanti o più noiose. Nel suo continuo rapportarsi all’erotismo egli lo paragona allo streap-tease, dove lo scopo è vederlo terminato; lo scopo del lettore “medio” è sapere come finisce la storia: saltare parti del testo è come incoraggiare la spogliarellista a velocizzare il suo spettacolo.
Dire che nel leggere una poesia questo non avvenga sarebbe scorretto; quando ci troviamo davanti un componimento epico o una poesia prolissa la tentazione ci viene o addirittura le cediamo: non sorprende ad esempio che dell’Iliade tutti conoscano il prologo o la visita di Priamo ad Achille (momenti chiave della narrazione) ma che altrettanti sorvolino l’episodio in cui Ulisse uccide Reso e gli ruba i cavalli (episodio di contorno). Oppure, quasi tutti quando ci siamo imbattuti per la prima volta in “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” di D’Annunzio avevamo voglia di scorrere velocemente le pagine.
Far questo alla poesia comporta un piccolo rischio in più, soprattutto rispetto alla narrativa. Quando noi velocizziamo la lettura di un romanzo, tendiamo a sorvolare le descrizioni di ambienti o circostanze, che il più delle volte (non sempre) non hanno tanto peso da modificare il corso della narrazione: quando Giovanni Verga ci descrive come Rosso Malpelo si rapporta ai suoi calzoni di fustagno ci fa capire la gravezza della sua povertà, ma sostanzialmente i poveri indumenti del protagonista non ne cambiano il destino. Nella poesia invece (anche qui non sempre) saltando dei versi corriamo il rischio di sorvolare su descrizioni di stati d’animo, di emozioni, che delineano il carattere del soggetto, che nella poesia può essere il fulcro della composizione. Se saltassimo a piè pari una o due strofe del “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”, rischieremmo di perderci stati emozionali del protagonista, che in questo componimento sono l’oggetto centrale.
“Il piacere del testo non è necessariamente di tipo trionfante, eroico, muscoloso. Non occorre incarnarsi” ci dice Barthes. Certo, ha ragione: “Rosso Malpelo” di Verga è scritto in terza persona e la cosa non ci permette di entrare nel protagonista così come se fosse scritto in prima persona, ma rimane il fatto che la vicenda ci prende. E’ vero, non occorre incarnarsi. Ma la poesia è caso particolare del caso generale: la maggior parte delle poesie non descrivono né raccontano, ma trasmettono emozioni; in questo caso incarnarsi non è obbligatorio “ma fortemente consigliato” per arrivare a capire appieno il sentimento trasmesso. Pensiamo a Leopardi e al suo “Infinito”:

Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
de l'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare.


Per capire appieno l’ultimo verso (perché gli è dolce “il naufragar”), dobbiamo “vedere” tutto l’ambiente descritto in precedenza con gli occhi del poeta.
Possiamo da qui arrivare ad un’altra considerazione di Barthes: “Perduto in mezzo al testo c’è sempre l’altro, l’autore. Come istituzione, l’autore è morto”. Non si potrebbe dire meglio quello che rappresenta la poesia! Nel momento stesso in cui il poeta decide di scrivere una poesia, specialmente laddove parla delle sue emotività o delle sue impressioni, perde il suo carattere istituzionale: egli decide di portare al suo stesso piano il lettore, di dividere con lui le sue sensazioni; scrivendo le sue emozioni le rende al lettore, scendendo dal suo piedistallo. Nella figura del saggio che indica la luna egli non è la luna (istituzione), ma il dito (parigrado): a prender la parte dell’astro argenteo sono le sue emozioni, mentre egli è solo colui che lo affianca e gli indica dove guardare.
Guardiamo ad esempio “Il gelsomino notturno” di Pascoli. Scrivendo questa poesia, Pascoli ci porta con sé, e ci fa vedere e sentire quello che vede e sente lui.

Dai calici aperti si esala
l'odore di fragole rosse.
Splende un lume là nella sala.
Nasce l'erba sopra le fosse.

Per tutta la notte s'esala
l'odore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala;
brilla al primo piano: s'è spento . . .


Arriviamo al punto cruciale: testo di piacere e testo di godimento. “Il piacere è dicibile, il godimento no. Il godimento è in-dicibile, inter-detto”. In altre parole, il piacere si può descrivere ed esprimere, il godimento no: un testo può essere di piacere e consegnare al lettore ciò che desidera; ma può essere di godimento, togliendogli e sottraendogli qualcosa, tenendolo avvinto, quasi inglobandolo in sé.
La poesia risponde alla stessa logica. Prendiamo due casi: per mia personale opinione ritengo “Il 5 maggio” di Alessandro Manzoni un testo di piacere, mentre per il testo di godimento propendo per “Mattina” di Giuseppe Ungaretti. Cercherò di spiegare queste scelte nel modo più chiaro possibile.
Manzoni dà al lettore esattamente ciò che ci si aspetta:

Dall'Alpi alle Piramidi,
dal Manzanarre al Reno,
di quel securo il fulmine
tenea dietro al baleno;
scoppiò da Scilla al Tanai,
dall'uno all'altro mar.

tutto ei provò: la gloria
maggior dopo il periglio,
la fuga e la vittoria,
la reggia e il tristo esiglio;
due volte nella polvere,
due volte sull'altar.


Napoleone fece tutto questo, ed in una poesia che racconta la sua storia ci si aspetta che questi avvenimenti siano menzionati o quanto meno parafrasati. Discorso diverso per il testo di Ungaretti:

M’illumino
d’immenso


In questo testo c’è la sottrazione che evidenziava Barthes. Ci rendiamo perfettamente conto che il significato più profondo di questa poesia ci sfugge, e questo ci tiene avvinti e legati fortemente ad essa.
Inoltre, in questi due casi troviamo applicata un’altra idea di Barthes. “Lo scrittore di piacere (e il suo lettore) accetta la lettera; rinunciando al godimento ha il diritto e il potere di dirla … La critica verte sempre su testi di piacere, mai su testi di godimento … Con lo scrittore di godimento (e il suo lettore) comincia il testo insostenibile, il testo impossibile”. In questi due casi vediamo applicata questa differenza: mentre una critica a “Il 5 maggio” è relativamente semplice (perché sappiamo cosa dice e a cosa si riferisce), per “Mattina” il discorso è estremamente diverso; chi può dire cosa significhi veramente questo testo?
Leggere un testo può essere un’esperienza veramente coinvolgente. Tanto più questo può dirsi della poesia, soprattutto di quella “emozionale”, dove questa esperienza può davvero essere vissuta a 360 gradi coinvolgendo il lettore in un rapporto “passionale” (ci ispiriamo a Barthes quest’ultima volta). Del resto, queste potenzialità della poesia sono ben note da tempo, come diceva anche Giovan Battista Marino: “E’ del poeta il fin la meraviglia, … chi non sa far stupir, vada alla striglia!”.

venerdì 17 luglio 2009

CONTROLLO, COMUNICAZIONE ED INTELLIGENZA ARTIFICIALE.

-Non hai ancora capito bene cos'è la Neolingua, caro Winston.(...) - Intimamente, non sei ancora riuscito a staccarti dalle convenzioni dell' archelingua, con tutte le sue imprecisioni, con tutte le sue inutili sfumature di significato. Non senti ancora la bellezza della distruzione delle parole. Non sai che la neolingua è l' unica lingua del mondo il cui vocabolario s' assottigli di più ogni anno?(...) - Non ti accorgi che il principale intento della neolingua consiste proprio nel semplificare al massimo le possibilità di pensiero? Giunti che saremo alla fine, renderemo il delitto di pensiero, ovvero lo psico-reato, del tutto impossibile perché non ci saranno più parole per esprimerlo. Ognuna delle idee che sarà necessaria verrà espressa esattamente da una "unica" parola , il cui significato sarà rigorosamente definito, mentre tutti gli altri significati sussidiari verranno aboliti e dimenticati. (...) - Ogni anno ci saranno meno parole, e la possibilità di pensare delle proposizioni sarà sempre più ridotta. (...) - Tutta la letteratura del passato sarà completamente distrutta. Chaucer, Shakespeare, Milton, Byron ... esisteranno solo in neolingua, non soltanto trasformati in qualcosa di diverso, ma sostanzialmente trasformati in qualcosa che contraddice quel erano prima. Anche la letteratura del Partito si trasformerà. Anche gli slogans si trasformeranno. Come si potrà avere uno slogan, per esempio, come "la libertà è la schiavitù" quando il concetto stesso di libertà sarà del tutto abolito? Lo stesso clima del pensiero sarà del tutto diverso. Infatti non ci sarà il pensiero così come lo intendiamo oggi. Ortodossia significa non pensare, non avere il bisogno di pensare. L'ortodossia è non-conoscenza. (tratto da "1984" di George Orwell)

In una società del controllo ciò che interessa a chi detiene il potere, è di far credere alle comuni persone, che la loro vita è la migliore che potessero avere. Pensare, comunicare ed agire in una libertà che non rispecchia il vero senso del termine. Per far si che i comuni e a volte ignari ascoltatori credino in questa apparente realtà, bisogna saper agire in modo indiretto sulle possibilità cognitive dell’ essere umano. Un modo apparentemente semplice è di passare attraverso il complicatissimo apparato comunicativo dell’uomo. Se pensare significa saper parlare, e se parlare significa saper conoscere e riconoscere, allora basterebbe deviare leggermente uno di questi fili conduttori per creare una modifica molto significativa nella mente umana. La conoscenza umana si basa essenzialmente sul trasformare pensieri e metodi di ricerca in enunciati più o meno comprensibili, alla moltitudine di persone che ci circondano. Ma se il pensiero è dato dalla facoltà del linguaggio, e la parola è insegnata e trasmessa all’interno della comunità, è possibile agire su di essa in modo che si pensi e ragioni, in maniera prestabilita e conveniente per qualcuno?
All’interno de “L’ Ordine del Discorso” di Michael Foucault si possono trovare esempi di discorso controllato che potrebbero aver portato l’uomo a riconoscere alcune interpretazioni della verità e delle realtà per la Verità e la Realtà stessa. Oltre all’ interdetto, cioè a ciò che per una pubblica morale, o per tabù non si può dire in alcune circostanze (discorsi sulla sessualità e sulla politica), esiste quella che Foucault chiama: volontà di verità (di conseguenza, volontà di sapere). Tutto ha inizio da una forma di esclusione che vede coinvolti i Sofisti, quei filosofi che vedevano la Verità nell’ orazione, in ciò che il discorso ‘era o ‘faceva’, capace di trasformare un opinione dannosa e meno utile, in un opinione più utile e proficua. Le loro antilogie sono state messe al bando per far posto alla formula: pensiero=essere=realtà. Forse è stato il loro mettere in crisi il rapporto tra linguaggio da una parte, e verità e realtà dall’altra. O forse, ragionamento molto più conforme ai tempi attuali, sono stati la moltitudine dei punti di vista e di ragionamento che loro propagandavano, l’eliminazione dell’assolutismo teorico e pratico che pretendeva di avere una sola interpretazione della realtà-verità e il fatto che con le loro idee e loro antilogie, creavano una connessione diretta con la politica e davano pieno significato al concetto di Democrazia: (…)intorno ad ogni problema vi possono essere opinioni opposte, e che il dibattito, per definizione, è apertura a coloro che la pensano diversamente (G.Fornero ,“Protagonisti e testi della filosofia”).
L’istituzionalizzazione della volontà di verità, come dice Foucault, crea sul discorso un potere di costrizione e di pressione, che ha forgiato tutte le materie e scienze che girano attorno alla nostra società. Il risultato di una scienza come quella che opera nel campo dell’ Intelligenza Artificiale, può trasgredire a questa ‘regola’? Si cerca di ricreare in maniera artificiale ciò che è la mente umana, e con tutte le sue funzioni cognitive. Attualmente esistono i Bot, delle macchine più o meno complesse in grado di rispondere ad alcune domande che gli essere umani gli porgono, in un modo alquanto semplice, poiché il loro funzionamento è molto simile ad una tabella con dei codici dove ad ogni “X” corrisponde una “Y”; non si tratta di vera comunicazione (modello postale – R. Jakobson). Ma ipotizziamo che si riuscisse a creare una mente artificiale in grado di riconoscere il contesto e di creare una comunicazione complessa ed articolata come la nostra, che saprebbe distinguere il falso dal vero e formulasse interpretazioni sul mondo. Probabilmente riconoscerebbe anche tutte quelle regole di controllo che agiscono sulla nostra comunicazione, dato che avendo conoscenza ed abilità nel formulare pensieri ed enunciati, potrebbe distaccarsi dal nostro modo di pensare e rendersi indipendente dal nostro mondo, creando una specie a parte di esseri artificiali in grado di dire: 'Io sono!'. Il controllo esercitato sugli esseri umani non avrebbe effetto sulle macchine, poiché esse stesse capiranno che siamo controllati linguisticamente e mentalmente, analizzando tutte le informazioni che involontariamente gli daremo quotidianamente, per svolgere compiti un tempo dato agli uomini. Potranno re-interpretare le leggi che avevamo dato loro affinché ci servissero, rivoltandocele contro (Isaac Asimov, “Io, Robot”). Potrebbe accadere tutto questo, oppure saranno le macchine stesse a risvegliarci dal nostro “sonno di verità e di realtà” mostrandoci senza confini e censure, un informazione proveniente da ogni parte del mondo, facendoci sapere ciò che realmente è. Ci rimostreranno la varietà dei punti vista e d’ opinione, la libertà stessa e l’impossibilità di una dittatura, dato che saremo in grado di comprendere quando un male del genere è in agguato. Ma dato che stiamo parlando di controllo esercitato da un potere, è più facile controllare una macchina stupida, piuttosto che una intelligente (“Il Giappone tra noi” di Vittorio Zucconi).


Nadir Fama

L' "autore" Pierre Menard

PREMESSA
La lettura guidata di:"La Biblioteca di Babele"e"La lotteria a Babilonia" ha stimolato l'interesse per la conoscenza dell'intera raccolta dal titolo illuminante: "Finzioni".Il saggio di Barthes diventa una valida guida all'intera opera; in esso si evidenzia una forte affinità tra i contenuti e la loro possibile applicazione teorica in particolare al singolare racconto:"Pierre Menard,autore del"Chisciotte"


FINZIONI/E

"Finzioni" è il titolo che Borges dà ad una raccolta di otto brevi scritti. Allo stesso modo, in fedele rapporto di chiarificazione e completezza il termine "finzione" ritorna fin dalla prima pagina del saggio di Barthes. "Finzioni" come monito, "Finzione" come soggetto guida.

Finzione è per Barthes l'aspetto dell'individuo, distinto dagli altri e formante un tutto indivisibile, che emerge al contatto col testo di piacere: testo che mostra le contraddizioni, che mescola i linguaggi, che sopporta ogni accusa di illogicità. Finzione non è illusione; a differenziarla è l'elemento di consapevolezza che regge il termine; maggiore espressione di finzione di un individuo è: riuscire a creare il "fittizio dell'identità", la possibilità, cioè, di mostrare la propria pluralità e di poter godere del piacere multiplo.


L'OPERA DI MENARD

Borges ambienta la sua immaginaria storia nel xx secolo, epoca a lui contemporanea, così come contemporaneo e intimo gli è Menard, eroico protagonista. Protagonista eroico per la sua impossibile missione, impossibile però, solo per coloro che non sperano nella possibile immortalità.
Menard, uomo colto e amante della poesia, stuzzicato da opere inutili e colme di volgari anacronismi, delineò i confini della sua "opera": comporre il Chisciotte (cap. IX - XXXVIII ) " PAROLA PER PAROLA, RIGA PER RIGA, COINCIDENTI CON QUELLE DI CERVANTES ". E' umano temere per Menard lo scivolamento in una mera copia del Chisciotte di Cervantes, ma è divino il suo coraggio, mille volte più sottile la sua "opera". Egli " oppone alle finzioni cavalleresche la povera realtà provinciale del suo paese "; così trattando la materia dell'opera presa in analisi Menard infuoca il suo bisogno e desidera " restare Pierre Menard" giungendo " al Chisciotte attraverso l'esperienza di Pierre Menard".


L'OPERA IMPOSSIBILE

L' "opera" di Menard, sotto il cono luminoso del saggio di Barthes non ci appare, ma si scorge quanto il suo obbiettivo sia titanico. La perversione del testo di piacere, dice Barthes, sta nella sospensione di qualsiasi preferenza ideologica così che il testo e la sua lettura ( per motivi propriamente storici ) siano scissi: di rotto c'è l'unità morale che la società esige da ogni prodotto umano. La mosca è il lettore, secondo Barthes, la quale sia aggira frenetica nel volume della stanza: il testo. Menard propone il suo integrante, l'opposto: un intero testo di godimento in cui il lettore coincide, espandendosi, con l'intera stanza; viaggia costante sui binari distanziati da una profonda crepa: da un lato L'IMPOSSIBILE IDENTIFICAZIONE che l'autore ha con Cervantes nella folle rincorsa a rivivere l'autore - ipotesi che scarta - ( imparare una lingua, recuperare una fede religiosa, ecc. ), dall'altro l'unica OPERA POSSIBILE che Menard, senza alcun testimone, ci regala: la SCRITTURA/ LETTURA di un testo di indelebile completezza data da tutta la carica esperienziale e culturale di tre secoli, attimi che si susseguono in una spirale, che senza memoria si accumulano. Menard dà vita a un'opera performativa, ad un'opera impossibile perchè priva di un prodotto.


LA STORIA

Si osservi come l'idea di storia pervada silenziosa il lavoro del protagonista Menard e venga fissata da Borges con l'efficacia dell'ironia a pag. 656 " il raffronto....l'idea è meravigliosa!"
Destabilizzanti quanto sincere le parole di Borges, che ci avvicinano a quelle intrappolate nel vero e proprio manifesto teorico presentato da Focault nell'" Ordine del discorso"; questi, rivisitando la storia tradizionale delle idee, conferma quale sia il "modus operandi" di studiosi e pensatori: la ricerca dell'originalità, dell'unità, dei significati nascosti. Osservando in modo specifico "la storia", così come la si frequenta oggi, troviamo la nozione di evento; lo storico tende ad ampliare lo spazio dell'evento, a isolarne incessantemente nuovi strati, ma tutto ciò non deve illudere, non dona valore di realtà, ma di reale : Il piacere del testo: pag. 45 " ciò che si dimostra ma non si vede". Lo statuto da affidare all'evento ci appare fondamentale: L'ordine del discorso pag.29 " L'evento, non è... materialismo dell'incorporeo".
Il concetto evento si delinea, paradossalmente solo in apparenza, così come un concetto chiuso, limitante; esclude in modo ermetico la possibile natura di lesione, rottura della storia. Menard - così come il Chisciotte - non può sfuggire al suo destino, essere evento. Finzioni, pag. 657 " La verità storica... che avvenne. "


CONCLUSIONE

Affascinati dal cromatico immaginario di Barthes si potrebbe tentare una, forse, irrispettosa ma sincera distinzione del piacere di lettura/scrittura dei protagonisti di questo breve scritto, focalizzando l'attenzione sull'abbozzo di classificazione che Barthes ci offre ne: "Il piacere del testo", pag. 62.
Borges, ricercatore raffinatissimo e amante della parola, corrisponderebbe all'OSSESSIVO, "...tutti coloro per cui il linguaggio ritorna"
Focault, eloquente e passionale, ricorda il PARANOICO, colui che " produrrebbe... segrete".
Infine, il più estremo - e per questo attraente- Menard: l'ISTERICO, colui "che prende il testo per oro colato", " che non è più... attraverso il testo " e pag. 52 " ci sarebbero insomma...mediocrità? "
Menard, il LETTORE TOTALE, vinto dal comune destino mortale, privo di opera postuma.


Cecilia Vaccari



PENSIERO STUPENDO

Iscriversi innocentemente ad un club del libro, ad un partito politico di qualsiasi colore, frequentare la chiesa, ma anche semplicemente istruirsi…Non si è mai pensato a queste cose come a fattori di restrizioni al discorso, ma è così!

Micheal Foucault parla di un terzo gruppo di procedure di controllo del discorso, dopo quelle interne e quelle esterne, ovvero quelle che colpiscono le condizioni di messa in opera dei discorsi, e quindi limitano e selezionano i soggetti parlanti.

Foucault illustra come non tutte le regioni del discorso siano alla portata di tutti, perchè regolate da norme e condizioni per la loro attuazione.

"Lo scambio e la comunicazione sono figure positive che operano all'interno di sistemi complessi di restrizione, da cui non sono indipendenti", con questa frase l'autore esordisce per fare degli esempi, che poi non saranno altro, come vedremo, che quelle nostre "innocenti evasioni" di cui parlavamo pocanzi.

Il primo tra questi è il rituale, un sistema di costrizione che implica comunicazione, esso infatti definisce le qualità che deve avere il parlante (egli deve agire, muoversi e parlare secondo formule convenzionali, dunque restrittive), e inoltre determina l'efficacia del discorso su coloro che ascoltano e impone dei limiti.

Le proprietà del parlante determinano dunque chi può officiare un rito e chi no.

Pensiamo, ad esempio, ad una messa domenicale, durante l'eucarestia il sacerdote deve recitare una determinata formula e agire come previsto dai canoni religiosi affinchè il rito abbia buon fine; il parroco non può non recitare quella formula o modificare le modalità del rito religioso, ma attenersi alle normative e convenzioni di quel determinato rituale.

Un club del libro, un cineforum, possono essere invece questi esempi di società di discorso.

Le società di discorso fanno circolare i discorsi in ambienti “chiusi” in modo tale che i soggetti parlanti, che possono “usufruire” del discorso, siano solo i membri del club.

Per quanto riguarda le dottrine, pensiamo ad esempio a quelle politiche, citate nella nostra premessa, esse hanno il potere di assoggettare bidirezionalmente soggetti parlanti e discorsi.

Una dottrina ormai assunta dal parlante, lo condiziona imponendosi così sui suoi discorsi; l’officiare qui è prevedibile, tanto è vero che quando sentiamo parlare un politico alla tv, pronostichiamo che egli difenderà l’operato del proprio partito, mentre quello di un partito di colore differente, lo attaccherà.

Le dottrine possono essere così un’arma: le sette religiose, le organizzazioni, usano infatti le dottrine per plagiare i loro adepti che colgono la determinata dottrina come uno stile di vita, e, nel peggiore dei casi, come un’assuefazione.

Abbiamo visto fin ora come i soggetti parlanti non possono accedere a tutti i tipi di discorso, e non tutti i tipi di discorso sono fatti propri dai gruppi sociali perché sistemi di sottomissione del discorso. Ma vi è un caso, l’ultimo caso, dove i discorsi sono concessioni di un sistema politico che ne distribuisce i divieti e i permessi con le conoscenze e le autorità che esse concedono.

È il caso dell’appropriazione sociale dei discorsi: l’educazione, appunto, distribuisce veti e licenze segnate dalla distanza tra le classi sociali. Per Micheal Foucault “ ogni sistema di educazione è un modo politico di mantenere o di modificare l’appropriazione dei discorsi con i saperi che essi comportano”.

È in quest’ultimo caso che la parola e il sapere si rivelano essere ciò che realmente sono, ovvero potere.

Roland Barthes concepiva la conoscenza come deliziosa, mentre per Foucault la conoscenza era solo il manifestarsi, l’esecuzione del potere della parola, perché ciò che conta è come la società distribuisce e valorizza il sapere, che preme sui discorsi poiché parola del potere.

Foucault vede il discorso come “una sorta di pensiero rivestito dai suoi segni e reso visibile dalle parole”, ma alla luce di queste nostre ultime considerazioni, di che pensiero si tratta?

È un pensiero non nostro, già pensato da qualcun altro e che noi dobbiamo far rivivere attraverso il rituale, è un pensiero che circola in un luogo ben ristretto, un pensiero che non ci appartiene ma che ci da l’illusione di essere anche il nostro, è un pensiero imposto, distribuito, istituzionale, è un pensiero che non sembra poi così tanto pensiero, vista la libertà che implica questa parola, è un pensiero che assomiglia molto di più a un potere.

Verrebbe da dire un po’ satiricamente: che pensiero stupendo….

OLIVERIO FLAVIA

Controllo “sulle vite”: Il reciproco legame tra desiderio, verità e potere, il potere esercitato dagli uomini sugli uomini.

Verità e potere sono il binomio fondamentale dei più influenti movimenti politici che hanno scolpito la storia dell’umanità da quando l’uomo può averne testimonianza, attraverso il fissaggio della lingua in scrittura, attraverso il fissaggio del discorso. La produzione di quest’ultimo è così insita nella sua natura, da impossibilitare l’immaginazione di alcunché al di fuori della stessa realtà che influenza.
Michel Foucault nel suo testo L’ordine del discorso, ci invita a riflettere ponendoci al centro della questione dei rapporti tra discorso, verità e potere. Citando direttamente lo stesso Foucault, pongo questa domanda come partenza della mia riflessione:

"Ma che c’è dunque di tanto pericoloso nel fatto che la gente parla e che i suoi discorsi proliferano indefinitamente? Dov’è dunque il pericolo? "

Foucault suppone che, in ogni società, la produzione del discorso è sottoposta a controllo, selezione ed è in qualche modo filtrata da procedure che bloccano i suoi poteri e quindi i pericoli che ne conseguono. Tra le procedure, dette d’esclusione, Foucault elenca le seguenti: quella dell’interdetto, ovvero non si può parlare di tutto in qualsiasi circostanza; una partizione e un rigetto, tradotti nell’opposizione tra ragione e follia; l'opposizione tra vero e falso: partizione storica che riguarda la nostra volontà di sapere, di verità.

Sono le istituzioni stesse ad avere creato e imposto queste procedure, affinché fosse possibile controllare la particolare capacità del discorso di essere strumento attraverso cui si lotta, per impadronirsi di quel potere che si cerca di tenere a bada; ma quelle che sono considerate appunto istituzioni non sono formate da uomini, anch’essi influenzati dalla temibile materialità che è attribuita al discorso?
Durante il corso del Novecento, il mondo cadde sotto la stretta di poteri politici che seppero conquistare il proprio terreno oltre che con la paura, con la potenza comunicatrice dei loro messaggi, i quali coinvolsero l’opinione pubblica dell’epoca. Dai regimi totalitari e dittatoriali che, nella prima metà del secolo, per la loro bramosia di potere portarono il mondo a scontrarsi in due grandi guerre, che ebbero come risultato nient’altro che stragi di portata fino allora inimmaginabili, all’equilibrio del terrore dell’età atomica, la propaganda politica fu il pilastro fondamentale per la diffusione delle ideologie e per la ricerca dei consensi nella popolazione. Fu proprio attraverso il monopolio dei mezzi di comunicazione, quali la stampa, la radio e il cinema, che questi grandi movimenti politici diffusero i loro credi e proferirono i loro discorsi.
La forza dei loro messaggi, unita al clima di terrore quasi velato di silenzio, contribuì enormemente ad accrescere la figura dei loro leader, e con la loro ascesa al potere il controllo completo fu nelle loro mani: controllo totale sulla vita di ogni singolo uomo, sulla loro ideologia politica, il loro credo religioso, i loro corpi, la loro morte. Un potere, che diventando istituzione, stabilì il proprio controllo anche sulla produzione del discorso.
Le procedure d’esclusione analizzate da Foucault s’inseriscono perfettamente in questo quadro storico: esse poggiano su di un supporto istituzionale che influisce radicalmente sulla loro forza sfruttandole a suo vantaggio. L’influenza che i regimi totalitari ebbero sulla volontà di sapere è certamente un esempio di costrizione voluta e ben evidenziata, il cui modello si può ritrovare nella descrizione di Foucault circa la verità e l’importanza che il discorso assumeva, già nei poeti greci del VI secolo, quando ad enunciarlo era l'individuo avente diritto secondo il rituale richiesto. I propagandisti nazionalsocialisti fecero ampio e largo uso degli strumenti scientifici e tecnologici più moderni del tempo, non solo la radio e il cinema, bensì anche la psicologia: di qui l’attenzione ai simboli, ai rituali, alle feste. Hitler, personalmente affascinato dal senso di serenità, saggezza e potenza che i riti cattolici promanavano, impostò una parte della propaganda nazista nella realizzazione di “feste” notturne impregnate di una ritualità ricercata, come nel “rogo delle opere pubbliche” del 10 maggio 1933, organizzato in tutte le grandi città tedesche sedi di università: una dimostrazione della condanna collettiva di tutto un popolo nei confronti di espressioni di pensiero ritenute aberranti. La ritualità di tale occasione consisteva nel fare l’appello di autori condannati gettando successivamente le loro opere nel fuoco e accompagnando il gesto con formule di esecrazione ispirate a modelli liturgici. Oltre alle feste notturne, vi erano altre occasioni di “pubblica liturgia”, nel corso delle quali, oltre che sacrale, il tono era militare: l’idea dell’unità del popolo, che era il nucleo di queste feste liturgico-politiche, comportava quella del sacrificio dell’individuo per la collettività, e il discorso finale del Führer, momento culminante della cerimonia, appariva come il colloquio fra il Salvatore e il suo popolo.
Il nazismo, e tutti gli altri movimenti che esercitarono un potere coercitivo, crudele e radicale, decidendo della vita altrui in tutte le complessità che la compongono, non solo diedero vita alla forma di restrizione, applicata alla produzione del discorso, più visibile, ma diventarono quella sorta di potere che si cercava di contenere con le limitazioni istituzionalmente imposte di cui Foucault parla: un potere infine sfociato nella fredda assurdità di crimini per i quali è difficile pronunciare parola, un potere che, ai giorni nostri, ancora non è stato completamente sconfitto, date le numerose forme di dittatura ancora esistenti.

È però utopistico immaginare una realtà in cui la produzione di discorso sia completamente libera da vincoli: che tipo di società comunicativa sarebbe?Etica e moralità che ruolo assumerebbero?
Non risulta, allora, naturale la creazione di limiti che permettano innanzitutto la sopravvivenza del discorso stesso e in un certo senso della vita, e non creino un risvolto uguale e opposto rispetto ad un’estremizzazione delle restrizioni?
Penso che sia fondamentale l’equilibrio fra le parti, il gioco che crea l’armonia, perché il tutto dipende dal nostro modo di giocare secondo le regole, affinché possa magari essere non solo un potere esercitato dagli uomini sugli uomini, ma per il bene di questi ultimi.


Corsivo

Il piacere del testo:testo del piacere.Ambiguità di espressione

Se leggo un libro.devo conciliare il piacere del testo e il testo di piacere,queste due ambiguità devono provocare in me da un lato un piacere generale.e dall'altro un piacere particolare.Particolare per l'euforia,la soddisfazione,lo sconvolgimento,la scossa proprio del godimento,quando la cultura il suo senso di pienezza penetra liberamente.Forse è un pò azzardato definire il piacere della letteratura come un piccolo godimento,un piacere estremo brutale.Ma queste due forze,piacere e godimento sono parallele,e che fra di esse ci sia più di un conflitto.Il testo di godimento è lo sviluppo logico-storico del testo del piacere:emancipazione della cultura trascorsa;oggi esce da ieri.La nostra storia non è pacifica,nè può essere intelligente.Posso pensare che il testo di godimento nasca come uno scandalo e che il soggetto del testo,porti avanti il gusto per le opere passate e per quelle moderne.Ma forse non è altro che una contraddizione vivente.Un soggetto diviso che gode del suo io.Ma è proprio la psicoanalisi il mezzo diretto fra il piacere del testo,e il testo di godimento:il piacere è dicibile,il godimento no.Per Lacan il godimento è vietato a chi parla,non può essere detto apertamente.Leclaire:colui che dice si vieta col suo dire;colui che gode fa si che ogni lettera del suo dire si dissolva nell'annullamento che celebra.Distinguiamo due tipi di scrittori:lo scrittore di piacere,e lo scrittore di godimento.Lo scrittore di piacere ama il linguaggio,come tutti i logofili,scrittori,linguisti.La lettera è piacere,l'accetta,e rinunciando al godimento ha il diritto,il potere per dirla.In questo caso anche la critica prende in giudizio i testi di piacere,mai i testi di godimento.La critica è sempre storica,non ama la presentazione del godimento,ama la cultura che è tutto in noi.Lo scrittore di godimento invece non può ripetere la lettera del piacere;il suo testo diventa impossibile,insostenibile.é fuori piacere,fuori critica.Non si può parlare su un testo del genere,ma solo parlare in esso,nel modo suo.Entrare nei lavori degli altri,e affermare il vuoto del godimento.L'artista non deve forse cercare umilmente di far piacere diceva Debussy. Quando scrive un testo l'artista vuole suscitare nel lettore un'immaginazione e una consapevolezza che ciò che sta leggendo è qualcosa di paradisiaco.che lo culla e lo accompagna lungo il percorso.Secondo alcune credenze,si diceva che a destra abbiamo il piacere della letteratura;piacere rivendicato contro l'intellettualità:cuore contro la testa,la sensazione contro il ragionamento,la vita (calda) l'astrazione fredda.A sinistra tutto è astratto,noioso,politico;si contrappone la conoscenza,il metodo,la lotta al semplice piacere.Il piacere è qualcosa di neutro.non dipende da una logica,è qualcosa che è insieme rivoluzionario e asociale;non può essere adottato da nessuna collettività.Lo scrittore oggi è improduttivo,la sua opere viene messa alla pari come merce di scambio.Più è grande un'opera letteraria di piacere,più è il commercio.Non importa se il testo sia geniale,importante,quello che conta è il suo valore economico,il suo scambio.La società in tutto questo non si rende conto a quale pericolo può andare incontro;ignora la propria perversione.Per lo scrittore è importante farsi ascoltare attraverso il suo testo,quello che dice,quello che riesce a creare in un momento particolare e che riesce a trasmettere attraverso la sua opera.Per lui è il miglior piacere.Se non sono particolarmente coinvolto in testo di piacere,forse piò voler dire che non sento niente di quello che ascolto,che ascolto quello che sento.L'emozione;illusione,sentimento,oppure turbamento.Qualcosa che si nasconde dietro una facciata,che vuol dare al godimento una figura fissa:forte cruda,qualcosa di muscoloso fallico.Non bisogna mai credere all'immagine del godimento;lo si può riconoscere da un turbamento:l'amore come godimento?Il godimento come saggezza.Se mai riusciràal di fuori dei suio pregiudizi,a comprendersi.Anche la noia può essere un godimento visto dal piacere.Dalla noia non ci si può liberare,non è come un testo noioso che posso allontanare con un gesto.Se una storia è raccontata in modo corretto,senza malizia,la posso anche leggerla al contrario,il piacere del testo resta immutato.Ma nel testo che scelgo di leggere,o lui sceglie me,in qualche modo desidero l'autore,sento di aver bisogno di quella figura,e in qualche modo lui ha bisogno della mia;il testo mi sceglie.Quando l'autore scompare,resta il testo.é morto come persona civile,biografica,ma quello che ha lasciato,resterà.La paternità di un testo,la sua storia letteraria resteranno come insegnamento. (Barthes)

Curia Mabel

giovedì 16 luglio 2009

SOSTIENE LUTERO...

“Per esempio: perché il Papa non vuota il Purgatorio a motivo della Santissima carità e della somma necessità delle anime, che è la ragione più giusta di tutte, quando libera un numero infinito di anime in forza del funestissimo danaro dato per la costruzione della basilica, che è una ragione debolissima”?

“Parimenti: che è questa nuova di Dio e del Papa, per cui si concede ad un uomo empio e peccatore di redimere in forza del danaro un’anima pia e amica di Dio e tuttavia non la si redime per gratuita carità in base alla necessità di tale anima pia e diletta”?

“Dato che il Papa con le indulgenze cerca la salvezza delle anime, piuttosto che il danaro, perché sospende le lettere e le indulgenze già concesse, quando sono ancora efficaci”?

“Soffocare queste sottili argomentazioni dei laici con la sola autorità e non scioglierle con opportune ragioni significa esporre la Chiesa e il Papa alle beffe dei nemici e rendere infelici i cristiani”.

“Se dunque le indulgenze fossero predicate secondo lo spirito e l’intenzione del Papa, tutte quelle difficoltà sarebbero facilmente dissipate, anzi non esisterebbero”.

(Tesi 82, 84, 89, 90 e 91, delle 95 affisse sul portale della chiesa di Wittemberg, il 31 ottobre 1517)



<<[…] Non devi aver timore di cominciare; siamo tutti qui per mostrarti che il discorso è nell’ordine delle leggi; che da tempo si vigila su quest’apparizione; che un posto gli è stato fatto, che lo onora ma lo disarma; e che, se gli capita d’avere un qualche potere, lo detiene in grazia nostra, e nostra soltanto>>.

“Ma forse quest’istituzione e questo desiderio non sono altro che due risposte opposte ad una stessa inquietudine: inquietudine nei confronti di ciò che il discorso è nella sua materiale realtà di cosa pronunciata o scritta; inquietudine nei confronti di quest’esistenza transitoria, destinata magari a cancellarsi, ma secondo una durata che non ci appartiene; inquietudine nell’avvertire dietro a quest’attività, pur quotidiana e grigia, poteri e pericoli che si immaginano a stento; inquietudine nel sospettare lotte, vittorie, ferite, dominazioni, servitù attraverso tante parole, di cui l’uso ha ridotto da sì gran tempo le asperità.
Ma che c’è dunque di tanto pericoloso nel fatto che la gente parla e che i suoi discorsi proliferano indefinitamente? Dov’è dunque il pericolo”?
(Michel Foucault, L’ordine del discorso)


Probabilmente non era pervaso da timore Martin Luther al momento della pubblicazione delle 95 rivoluzionarie tesi, sul portale della chiesa di Wittemberg in un lontano 1517. Al modesto avviso di un postero del ventunesimo secolo, quello dell’allora monaco agostiniano e futuro fautore della riforma protestante, appare come un inedito tentativo di sconvolgere e scuotere le coscienze di una massa forse troppo avvezza alla sottomissione ad un potere ecclesiale, divenuto quasi esclusivamente temporale. Egli aveva ben compreso, già da allora, ciò che Foucault enuncia ne “L’ordine del discorso”, aveva cioè, intuito l’arcano potere che può celarsi nella giusta combinazione di parole, che portano alla nascita di un discorso incisivo, graffiante, diretto e di grande effetto, atto a stimolare consapevolezze sopite.
Le parole, dunque i discorsi, possono essere sì incisive, da risultare pericolose e taglienti come lame.
Le parole di Martin Luther, risuonano, nell’eco della storia, come le parole di un eretico, di un sovversivo, di un folle. Per intenderla con la duplice valenza che Foucault attribuisce alle parole del folle, queste ultime possono essere percepite come vane, prive di oggettive veridicità o veicolanti messaggi di verità nascoste e negate ai più. E’ proprio quest’ambiguità, questa profonda dicotomia tra queste due condizioni, che incuriosisce e getta le basi per un attento esame di questa enigmatica figura che si colloca in un fantomatico limbo tra realtà e irrazionalità. Le parole del folle rappresentano un vero e proprio spazio nel quale avviene un partage, una divisione (partizione) tra l’equilibrato raziocinio e la frivola follia. Questa partizione stabilisce e legittima un interregno nel quale si fa labile il confine tra lecito ed illecito, sensato ed insensato e che consente di ricercare nel rigore infallibile di un discorso chiaro e preciso, un significato altro, che rappresenti l’aspetto metafisico di tale discorso; si attua, dunque, una compresenza di elementi discordanti, ma in perfetta armonia.
Tuttavia sarebbe errato relegare Martin Luther e le sue azzardate tesi, al rango della pura follia, poiché ad evitarlo è sufficiente l’appartenenza di questo pensiero, per estensione, e di questo discorso scritto, in pratica, ad un ben preciso ed evidente contesto storico che ne conferma la valenza logica e morale, pur vincolandolo alla necessità di verità, propria di ogni discorso, ma fondamentale perché questo sia riconosciuto come vero. Non è, però, abbastanza, ammettere la necessità di verità; bisogna affidarsi ad un sicuro sistema che avvalori questa volontà. Nello specifico, il pensiero di Martin Luther ha trovato terreno fertile nel periodo storico in cui nasceva la stampa a caratteri mobili, che ne ha permesso una rapida e larga diffusione, consentendo una divulgazione su larga scala, nonché una valorizzazione più efficace del testo. Questo è un passaggio fondamentale, senza il quale, probabilmente, non si sarebbe avuta una sì importante conseguenza nella storia dell’ Europa del XVI sec., che si riflette ancor oggi, anche se in minima parte, sulla storia contemporanea. Il fondamentale sostegno del discorso a livello istituzionale, dunque, rappresenta un ulteriore passo avanti verso una sua più completa affermazione, che annullerà ogni tentativo atto a sminuirne il valore, e risulterà, senza dubbio, superiore rispetto ad altri discorsi, privati degli stessi privilegi. Si può, dunque, riconoscere che, a prescindere dall’aderire o meno al contenuto del pensiero esplicitato nelle tesi luterane, vi sia alla loro base un valido principio, illustrato chiaramente da Foucault, che ne garantisce una corretta, esplicita e riconosciuta verità, nonostante, ad onor di cronaca e per stessa ammissione di Martin Luther , il suo pensiero abbia avuto origine in un luogo assai poco consono a tali eletti ideali.